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Sunday, 29 June 2025
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      I problemi teologici posti dalle rivelazioni private

 

 

  

 

A PARTE SUBIECTI: LE RIVELAZIONI PRIVATE E LA FEDE DEL CREDENTE

 

Torniamo a considerare l’affermazione di K. Rahner secondo cui per riconoscere le rivelazioni private la Chiesa pretende un grado di certezza soggettiva superiore a quello che caratterizza ordinariamente l’adesione di fede alle verità cristiane.

Ciò equivale a dire che esistono due livelli di fede: da un lato quello della fede nella parola della Scrittura e della Chiesa, dall’altro quello della fede suscitata dall’evidenza di un’esperienza sovrannaturale.

 

Estremamente significativa è a questo proposito la confessione di padre Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria, che riferisce l’emozione provata al suo primo contatto con Medjugorje, nel marzo dell’85:

 

Nella luce dell’anima ebbi per grazia la certezza che la Madonna appariva veramente e che quindi il cristianesimo era l’unica religione vera. Non vorrei che qualcuno mi fraintendesse. Ci mancherebbe altro che un sacerdote non fosse certo della verità della sua religione! Ma un conto è crederci con l’intelligenza e altra cosa è crederci col cuore. Non si può descrivere l’esperienza che si prova quando una verità ti trapassa da parte a parte e prende possesso della tua vita (PCM 9).

 

La certezza del veggente si trasmette quindi a chi ha con lui un contatto diretto:

 

Più di una volta mi sono trovato a pensare che delle persone che riscuotevano tutta la mia fiducia vedevano la Madonna ogni giorno. Sì, la Madonna c’era e dunque tutta la fede cristiana è vera, dalla prima all’ultima parola. Se la Madonna è viva oggi, allora l’aldilà esiste e la vita umana ha un destino di gloria. […] Quando uno ti dice che la Madonna esiste, perché l’ha vista pochi minuti prima, ti dona una verità più grande di mille prediche. Un’intera biblioteca di libri di teologia non avrebbe la medesima efficacia trascinante (ivi, p. 33).

 

Queste parole, quasi ingenue nella loro sincerità, dicono tutto l’immane sforzo di fede (la cosiddetta “fatica del cuore”) che viene richiesto a chi deve credere senza fruire dell’evidenza sensibile, sia pure mediata attraverso un veggente.

Nemmeno la fede di chi per vocazione ha scelto di servire Dio per la vita, dice in sostanza padre Livio, è paragonabile per intensità all’esperienza di chi giunge quasi a “toccare” personalmente il divino.

 

Eppure la fede suscitata dai libri sacri, dalla catechesi, dalla pastorale, ossia la fede ordinaria, è proprio quella che viene richiesta alla stragrande maggioranza dei fedeli.

La Rivelazione, ci viene continuamente ripetuto, “rivelando nasconde e nascondendo rivela”: chi non possiede carismi e non ne viene a contatto deve accontentarsi di questo chiaroscuro, di questa penombra, ossia del Dio nascosto su cui Vittorio Messori, riecheggiando Pascal, si dichiara pronto a scommettere.

 

La differenza sostanziale che padre Livio ravvisa nel suo “credere” (prima del contatto con Medjugorje e dopo) corrisponde grosso modo al credere a un Dio che si nasconde o a un Dio che si rivela (o comunque si nasconde un po’ meno). E, incredibilmente, la fede che ci viene presentata come più viva e più autentica è proprio la seconda, non la prima!

Questo dimostra la sostanziale pretestuosità della tesi che pretende di vedere nel “nascondimento“ una sapiente strategia divina.

 

Ha un bel dire Stefano De Fiores, a proposito di “segni e prodigi”, che “una fede matura ne fa a meno perché le basta la parola di Gesù” (MMG 354). No. Questo è smentito frontalmente proprio dalle parole di padre Livio ora ricordate.

Senza contare che pare decisamente assurdo pretendere da tutti, senza distinzioni, una “fede matura”; per di più, una fede “adulta”, come spesso si dice, pare proprio l’opposto di quel “farsi bambini” di cui parla Gesù, per il quale i semplici sono i destinatari privilegiati del messaggio evangelico.

 

Il fatto è che, contrariamente a quanto dice De Fiores, noi non abbiamo la genuina parola di Gesù.

Abbiamo una parola trascelta fra le molte da lui proferite (questo è di fede, lo dice la “Dei Verbum”) secondo precisi criteri (la “linea teologica” dell’evangelista, le esigenze dei suoi destinatari immediati); una parola formulata secondo la “comprensione” che i discepoli ne ebbero dopo la salita di Cristo al cielo, confluita poi nelle varie tradizioni orali (è pure ufficiale: i Vangeli rispecchiano la catechesi della Chiesa primitiva), messa infine nero su bianco dai vari evangelisti con continui vistosi “interventi redazionali” e con le peculiarità dei rispettivi usus scribendi.

Il tutto poi filtrato e interpretato, durante venti secoli, dall’esegesi ufficiosa, se non ufficiale, del Magistero.

 

Questa è la “parola di Gesù” che noi abbiamo. Una sorta – si perdoni la crudezza dell’espressione – di minestra riscaldata. È chiaro che quando si ha l’impressione di poter stabilire un contatto più diretto col divino, si respira tutt’altra aria, e vi si rinuncia a malincuore.

“Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto.” Certo; ma Gesù non ha detto che sarà dannato chi avrà creduto solo dopo aver visto.

Del resto, tutti i personaggi modello che ci vengono proposti come campioni della fede credettero proprio dopo una visione o comunque un’esperienza sensibile – a volte sconvolgente, traumatica – del divino: così Abramo e la Vergine Maria, così gli Undici di fronte al Risorto, e così Paolo.

 

È difficile dunque dar torto al fedele che vorrebbe un’esperienza del genere, e non si accontenta della parola di Dio stampata sulle pagine della Bibbia e ripetuta dalla Chiesa; al fedele che, come dice lo stesso Messori, vuole il “sangue “ della fede.

Sempre Messori, per denunciare l’attenzione a suo giudizio eccessiva che la Chiesa presta a tematiche sociologiche, politiche, terzomondiste e simili - a scapito della predicazione del Cristo crocifisso presente nell’ostia consacrata -, provocatoriamente ama ripetere che “il Verbo si fece carta”. Bene, mi pare che “il Verbo si fece carta” si attagli perfettamente, a fortiori, proprio alla realtà di un messaggio che si è cristallizato in un libro, qualificato “parola di Dio”; dal quale tutti i potenziali credenti dovrebbero attingere la propria fede, senza bisogno di sollecitazioni sensoriali extrabibliche.

 

 

A PARTE OBIECTI: QUEL CHE DICONO LE RIVELAZIONI PRIVATE

 

Mons. Rino Fisichella sintetizza con queste parole il contenuto di un passo della “Dei Verbum”:

“1) Gesù di Nazaret ‘compie e completa’ la rivelazione;

2) consequenzialmente, fino al suo ritorno glorioso, non c’è da aspettare nessun’altra rivelazione”.

 

In via di principio, tutti i teologi concordano con lui.

Ma ciò crea immediatamente una difficoltà pratica, in quanto il credente si sente continuamente ripetere frasi come “Questo lo Spirito Santo non ha voluto rivelarcelo”, “Questo lo sapremo nell’altra vita”. E si tratta spesso di cose importantissime, come ad esempio il destino eterno di embrioni e feti abortiti, nonché dei bambini morti senza battesimo.

 

Una seconda e più grave difficoltà, di natura teorica, sorge dal fatto che, abbiamo visto, tutti sono concordi nel proclamare che non possiamo impedire a Dio di continuare a rivelarsi.

Per eliminare la contraddizione, che fa la Chiesa? Limita drasticamente la libertà di Dio: gli concede di rivolgere agli uomini ammonimenti ed esortazioni, ma non di comunicare verità di fede.

Dio cioè non può, anche qualora lo volesse, operare aggiunte di contenuti alla sua Rivelazione, in quanto la presenza di tali elementi consente automaticamente alla Chiesa di dichiarare inautentica ogni rivelazione privata che li contenga (anche se, sul piano pratico, s’intende che ciò accade solo quando i nuovi contenuti risultano sgraditi).

 

In altre parole, la Chiesa di fatto si arroga il diritto di vietare a Gesù e a Maria di dire certe cose: se non si limitano a proferire moniti e raccomandazioni, vanifica il loro intervento; rifiutandosi di riconoscere l’apparizione, è come se gli spegnesse il microfono.

Ed è difficile non vedere in tale atteggiamento (di fatto una vera e propria censura) un carattere sottilmente blasfemo: Dio, autore di quella Rivelazione che ha affidato alla Chiesa perché la diffonda, non può più intervenire su di essa in quanto la Chiesa medesima glielo impedisce.

Ma se si ammette che Dio possa tornare a parlare agli uomini per filo diretto, dovrebbe esser lui a decidere quel che vuol dire, non il Papa o il teologo di turno!

 

Che la Rivelazione sia assolutamente compiuta e perfetta è affermazione della Chiesa, la quale in tal modo difende il proprio monopolio in materia di verità di fede.

La sua pretesa sarebbe compensibile se Cristo stesso avesse formalmente escluso di fare ulteriori comunicazioni, una volta tornato al Padre celeste. Ma le sue parole orientano semmai proprio in senso opposto: nei discorsi di addio del quarto Vangelo egli promette che molte cose verranno rivelate dopo la sua dipartita. Egli annunzia l’azione dello “Spirito della verità”, che, dice, “vi guiderà a tutta la verità, e vi annunzierà le cose che vengono”.

 

Naturalmente, per la Chiesa ciò deve avvenire attraverso le illuminazioni dei biblisti e dei teologi volte ad esplicitare l’implicito della Scrittura e via via recepite dal Magistero: in ciò consistono l’esegesi, l’ermeneutica e la teologia ufficiali.

Ma come si può escludere che lo Spirito voglia comunicare nuovi contenuti di fede ai credenti?

Dicendo “vi guiderà a tutta la verità” e “vi annunzierà”, Gesù praticamente afferma che nella rivelazione da lui compiuta non c’è tutta la verità e che l’annunzio non è completo.

 

Del resto, è difficile stabilire un confine tra ciò che va considerato monito, esortazione, e ciò che è “referenziale”, ossia rivelazione nel senso proprio del termine.

Anche J. Ratzinger, ad esempio, dopo aver ribadito che “non si tratta di comunicazioni intellettuali, ma di processi vitali, nei quali Dio si avvicina all’uomo”, ammette che “in questo processo poi naturalmente si manifestano anche contenuti che interessano l’intelletto”.

 

Possiamo ricordare il caso di santa Caterina da Genova, le cui visioni vengono spesso usate (tra l’altro da padre Livio in “Sguardo sull’eternità”) per fornire una descrizione del Purgatorio, visto che il Cielo non ci ha fornito alcun ragguaglio migliore sulla condizione delle anime purganti.

E, come ricorda anche M. Invernizzi (v. “Il Timone”, n. 19), le rivelazioni a suor Faustina Kowalska furono utilizzate da Giovanni Paolo II per una delle sue prime encicliche, la “Dives in misericordia”.

 

Altro contributo di rilievo teologico veicolato da innumerevoli rivelazioni private è quello della sofferenza di Dio, presentato piangente (a volte addirittura piangente lacrime di sangue) nella persona di Cristo; ancor più spesso, ovviamente, questo accade con Maria.

A Medjugorje la Madonna ha rivelato che embrioni e feti abortiti vanno in paradiso (“sono come piccoli angeli attorno al trono di Dio”): sant’ Agostino era di parere ben diverso (per tutti i morti senza battesimo), e dal canto suo la Chiesa, dopo aver vagheggiato a lungo l’ipotesi del limbo, ha deciso di lasciarla cadere, limitandosi ad “affidare” queste povere anime “alla misericordia di Dio” (CCC, § 1261; per tutti questi problemi v. Sorte degli innocenti morti senza battesimo).

 

In generale, si può dire che dalle rivelazioni private provengono molti elementi dottrinali, più o meno formalmente accolti e convalidati dalla Chiesa, riguardanti lo spinoso problema della perseveranza finale.

Dio avrebbe confidato a padre Pio che la sua misericordia ha stabilito che “nessuno si danni senza che lo sappia” (come dire che ci si può “convertire” anche nell’ultima frazione di secondo, il che è di grande consolazione per chi teme per la sorte di un proprio congiunto morto improvvisamente lontano da Dio); e la “coroncina della divina misericordia”, debitamente recitata al fianco di un moribondo, secondo quanto assicurato da Gesù a suor Faustina Kowalska, garantisce il suo intervento decisivo a favore di quell’anima.

 

Se si considera quanto spesso ci viene ripetuto che con la Rivelazione Dio ha voluto insegnarci solo quanto serve alla nostra salvezza, appare clamoroso che siano proprio le rivelazioni private a comunicarci cose così essenziali per tale salvezza, mentre la Bibbia contiene una miriade di informazioni sotto questo profilo assolutamente insignificanti.

 

Ma per convincerci che i contenuti delle rivelazioni private sono soggetti a una valutazione quanto mai variabile, leggiamo alcune parole di un famoso mariologo, il quale, alla p. 21 di un suo libro scrive che “le rivelazioni private sono estranee al Deposito della Rivelazione, alla quale nulla di sostanzialmente nuovo possono aggiungere”. Fin qui nessuna sorpresa: è la dottrina ufficiale. Se non che a p. 13 del medesimo libro leggiamo:

 

“La dottrina mariana contenuta nelle rivelazioni dei grandi mistici della Chiesa è ancora – si può dire – un campo quasi del tutto inesplorato. Ciò costituisce una grave lacuna per la Mariologia. Anche nelle rivelazioni private dei grandi mistici, infatti, si trovano non pochi elementi preziosi per la costruzione dell’edificio mariologico. Si potrebbe anzi arrivare a costruire una ‘Mariologia secondo i grandi mistici’: una Mariologia nuova o rinnovata (sotto molti aspetti), fresca, viva, affascinante”.

 

E si prosegue dicendo che Dio, il quale ci ha parlato per mezzo dei profeti, di Cristo, degli Apostoli, degli Evangelisti, della Chiesa (coi suoi “Dottori”) e del Papa (dunque: Scrittura, Tradizione, Magistero), “ci ha parlato e continua a parlarci [!] anche per mezzo dei mistici”, dotati dei cosiddetti “carismi”.

E di che cosa ci parla? “Per mezzo di questi mistici, Dio ha parlato e ci parla non solo di Se stesso e dei suoi ineffabili misteri, ma ha parlato e ci parla anche della sua Santissima Madre, della sua impareggiabile dignità, della sua singolare missione e dei suoi singolari privilegi”.

 

C’è di che rimanere sbolorditi. Qui non vi è dubbio che siamo lontanissimi dall’idea di limitare i contenuti alle esortazioni, ai moniti solenni: quando si parla di “elementi preziosi per la costruzione dell’edificio mariologico”, dei “misteri” di Dio, della missione e dei privilegi della Vergine, ci si pone indiscutibilmente sul terreno della teologia. E quindi in piena contraddizione con l’affermazione, or ora riportata, che le rivelazioni private non possono aggiungere “nulla di sostanzialmente nuovo” alla Rivelazione pubblica.

Che pensare dunque? La confusione regna sovrana.

 

Abbiamo citato così a lungo in considerazione dell’importanza della fonte: si tratta di un’opera (“La Madonna negli scritti di Maria Valtorta”) di Gabriele M. Roschini, considerato il più autorevole mariologo italiano del Novecento.

Sul Roschini e la Valtorta avremo occasione di tornare nel capitolo dedicato alle “Vite di Maria”.

E proprio le Vite di Maria scritte su preciso incarico della Vergine manifestatasi con apparizioni o locuzioni interiori sono un “genere” in cui almeno il novanta per cento è costituito da aggiunte alla Rivelazione: anche  in mancanza di elementi nuovi sotto il profilo teologico, è inevitabile che in tali opere si trovi una quantità di notizie di natura biografica assenti nei Vangeli e mai partorite neppure dalla vena creativa dei Padri.

 

Ma non è solo per il timore di indebite aggiunte alla Rivelazione che la Chiesa diffida delle rivelazioni private: anche quando le rivelazioni si limitano a confermare quel che già la Bibbia dice e il Magistero insegna, è grande il pericolo che i fedeli ricavino proprio da esse, anziché dalla Scrittura e dalla Chiesa, la certezza della fede.

 Tornando a quanto dicevamo all’inizio del capitolo, per innumerevoli fedeli la verità dell’Immacolata concezione è meglio garantita dall’autoproclamazione della Vergine a Lourdes che dalla bolla Ineffabilis Deus.

E, come padre Livio avverte la presenza viva della Madonna a contatto coi veggenti di Medjugorje, così molti devoti trovano in una “vita di Maria” rivelata a un veggente (di cui, a torto o a ragione, si riconosca il carisma) l’immediatezza di un contatto con la Vergine che non ricavano dalla lettura dei Vangeli e dai documenti del Magistero.

 

Luca ci parla della Madonna dopo aver fatto ricerche accurate, come egli ci assicura, e avrà certo scritto con l’assistenza dello Spirito Santo. Ma, con tutto il rispetto per l’evangelista, se c’è la Madonna in persona che ci parla di sé, Luca passa in secondo o terzo piano. Difficile contestare tale conclusione, se si vuole essere onesti.

Il sensus fidelium non si sbaglia: se quella è veramente la Madonna, quel che lei dice vale mille volte più di quel che dice Luca: è contrario al più elementare buon senso, ai più ovvi principi psicologici, pretendere che la testimonianza del protagonista debba passare in secondo piano, rimanendo semplice “rinforzo” del racconto del suo biografo (nel nostro caso, per di più, un biografo che ci garantisce la sua accuratezza, ma di cui non sappiamo neppure come, quando e da chi abbia raccolto le sue informazioni, duemila anni fa, né se abbia mai parlato con la persona di cui ci racconta).

A meno che, s’intende, non si abbia motivo di sospettare che il biografato menta pro domo sua; ipotesi che nel caso della Madonna è oltremodo blasfema.

 

Se dunque per la teologia è mostruosa eresia considerare certe rivelazioni come una sorta di Quinto vangelo, per molti fedeli le cose stanno proprio in questi termini (almeno a livello profondo, dato che di regola si sprecano le professioni di fede - che gli interessati per lo più ritengono sincere - nella indiscutibile preminenza del testo sacro). Pur se teologicamente scorretto, tale atteggiamento è psicologicamente comprensibile e moralmente legittimo.

Sicché, nella prospettiva del credente, quando padre Livio scrive, come abbiamo visto, che “un’intera biblioteca di libri di teologia non avrebbe la medesima efficacia trascinante” di un’apparizione seguita per così dire “in diretta”, in questa biblioteca si può tranquillamente includere la Sacra Scrittura stessa.

 

Il drammatico dilemma che si pone alla Chiesa di fronte a certe apparizioni sta proprio in questo: se lì non è la Madonna a parlare, il valore delle sue presunte dichiarazioni è nullo; se invece è proprio lei, occorre una buona dose di ipocrisia per negare – in nome del theologically correct - che quel che dice vale mille volte di più di quanto leggiamo di lei nei Vangeli.

Non esistono, purtroppo, vie di mezzo. 

 

Un argomento spesso utilizzato dalla Chiesa per ridimensionare rivelazioni private dai contenuti imbarazzanti ma accreditate da manifestazioni carismatiche spettacolari è la distinzione tra l’influsso soprannaturale che il veggente subisce e le sue limitate capacità di “traduzione” del messaggio in parole umane, “carnali”. Scrivono ad esempio Rahner e Vorgrimler nel loro “Dizionario di Teologia”, alla voce Apparizioni:

 

“L’intervento divino … è presumibilmente in primo luogo un intervento di grazia sul nucleo spirituale della persona; ad esso segue un’irradiazione, legata alle caratteristiche psicologiche del visionario e del suo ambiente, che investe la capacità sensorio-percettiva dell’uomo. Questa ‘conseguenza’ non va necessariamente considerata opera di Dio nella stessa misura e nella stessa forma di quell’intervento divino primario”.

 

Ecco, dunque: può accadere che il carisma sia autentico ma che il veggente poi ci metta del suo, insomma pasticci, manipoli, deformi il messaggio ricevuto, che quindi sarà da accogliere solo se e nella misura in cui la Chiesa lo riterrà compatibile col depositum fidei.

 

Abbiamo già definito sottilmente blasfemo l’atteggiamento della Chiesa che riconosce a Dio il diritto di parlare in qualsiasi momento agli uomini ma limita rigorosamente l’ambito delle sue esternazioni, riservandosi un potere di censura. Adesso non possiamo definire diversamente questa singolare concezione dell’operare divino: Dio investirebbe della sua grazia il veggente, potenziando in modo soprannaturale le sue capacità percettive, per consentirgli poi di deformare il messaggio mescolando al vero il falso.

Con singolare autolesionismo, Egli autenticherebbe col proprio sigillo contenuti che in realtà non approva!

Come non definire intrinsecamente blasfema una tesi che attribuisce al Cielo una così clamorosa insipienza?

 

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