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La pretesa ineffabilità dell’esperienza
Una carta importante che l’apologetica ha sempre giocato per giustificare le innumerevoli smagliature presenti nei racconti della Risurrezione è quella della presunta ineffabilità dell’esperienza costituita dalla visione del Risorto. Si tratta di un argomento chiaramente collegato a quello appena visto del “disordine delle testimonianze”. Se quest’ultimo puntava sull’eccitazione, sull’euforia prodotta dalle apparizioni nei testimoni, considerando il problema a parte subiecti, la tesi dell’ineffabilità vuole sottolineare l’obiettiva difficoltà di “comunicare” qualcosa che travalica i limiti di ogni esperienza umana. Scrive enfaticamente Rino Fisichella: “Ogni linguaggio umano rimane inadatto ad esprimere una realtà che è senza precedenti e che supera di gran lunga la forza espressiva di ogni forma di linguaggio umano”. Questa è a tutti gli effetti polvere negli occhi: come al solito, si cerca di giustificare le contraddizioni, nell’esegesi come nella teologia (dove spesso e volentieri si ricorre al “mistero”), con la pretesa ineffabilità della realtà che si deve esprimere. Ma qui si cade nel ridicolo: che cosa c’è di “inesprimibile”, ad esempio, nel fatto che al sepolcro siano arrivate dapprima una ovvero più donne? che il sepolcro fosse già aperto o si sia aperto in quel momento? che vi fossero uno o più angeli? che le donne siano corse a riferire oppure siano state zitte? che alla tomba siano andati Pietro e Giovanni o il solo Pietro? che i due di Emmaus narranti l’incontro col Risorto siano stati creduti o no? che Gesù sia apparso in Galilea (dopo la Pasqua) o a Gerusalemme il giorno stesso della risurrezione? che sia salito al cielo la domenica stessa o quaranta giorni dopo? Questa è mistificazione bella e buona. Si può al massimo concedere una certa difficoltà di rappresentazione per quanto riguarda lo status “glorioso”del Risorto (di questo abbiamo parlato nel capitolo “Il corpo glorioso” della prima monografia). Nient’altro. Non esiste eccezionalità dell’esperienza e intensità delle emozioni che possa giustificare la ripetuta errata indicazione delle circostanze di tempo e di luogo, ossia delle coordinate esterne, dell’esperienza stessa. Ciò di cui qui si parla è una serie di eventi che si inseriscono nel flusso della realtà sensibile (Gesù si fa perfino toccare), e hanno quindi una precisa definizione spaziale e temporale. - Ma persino nel caso di un’esperienza mistica consistente in una pura “visione”, nella percezione cioè di una realtà statica, fuori del tempo e dello spazio, potrà sì accadere che il mistico che ne è protagonista non trovi le parole per “comunicarne” la natura, l’essenza profonda; ma egli sarà sempre in grado di dire, a posteriori, quando ha vissuto tale esperienza e dove si trovava (col corpo) nel momento della visione. Nel nostro caso, sarebbe perciò assurdo dire che la Maddalena non poteva sapere se aveva visto Gesù prima o dopo la sua corsa in città per avvertire gli apostoli, e se era sola o in compagnia quando l’aveva visto. Tutt’al più, diremo che poteva avere qualche incertezza circa il messaggio affidatole dal Risorto (che infatti risulta completamente diverso in Matteo rispetto a quanto ci dice Giovanni). In tal caso però metteremmo in questione il discernimento di Gesù stesso, che avrebbe affidato le istruzioni a chi non era in grado di recepirle, o comunque di ricordarle correttamente. |
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