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Sunday, 05 May 2024
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    Theotókos. Dalla 'madre di Dio' al 'naso di Dio' 

 

 

 

Nel concilio ecumenico di Efeso dell’anno 431 venne ufficialmente attribuito alla Vergine il titolo di Theotókos, ovvero “madre di Dio”. Si tratta del titolo più prestigioso assegnato a Maria.

Come la catechesi si compiace di sottolineare, si tratta di un titolo essenzialmente cristologico e straordinariamente pregnante, poiché esprime in una potente sintesi i concetti della divinità e dell’umanità di Cristo, ovvero il mistero dell’Incarnazione.

 

Il rovescio della medaglia è costituito dal fatto che la legittimità del titolo è gravemente inficiata da una serie di forzature – veri e propri abusi – operate a vari livelli: linguistico, logico, teologico.

Noi ci proponiamo di dimostrarlo in tre modi:

 

1) esaminando lo statuto morfologico e semantico del termine;

2) analizzando i testi conciliari contenenti la definizione;

3) mettendo in luce alcuni bizzarri corollari che non vengono mai considerati dall’apologetica.

 

 

La gherminella linguistica

 

L’argomentazione fondamentale con cui si giustifica la legittimità del titolo di “madre di Dio” per Maria può essere presentata con le parole di san Tommaso:

 

“Sebbene la Scrittura non dica espressamente che la Beata Vergine è madre di Dio, dice però che ‘Gesù Cristo è vero Dio’ (1Gv 5, 20) e che la Beata Vergine è ‘madre di Gesù Cristo’ (Mt 1, 18). Quindi dalle parole della Scrittura segue necessariamente che essa è madre di Dio” (S. Th., III, q. 35, 4, ad 1).

 

“Segue necessariamente”, dice Tommaso; ma si tratta di una conclusione alquanto precipitosa. Alcune considerazioni di natura squisitamente linguistica, ossia formale – considerazioni che l’Aquinate non poteva neppure sviluppare per mancanza di conoscenze e strumenti adeguati, come chiariremo in seguito -, ci mostreranno dove sta il “trucco” che fa di Maria di Nazaret nientemeno che la “madre di Dio”.

 

Quando si dice che Maria è “madre di Dio” perché è madre di Gesù che è (anche) Dio, si pone una equivalenza assoluta tra Gesù e Dio, come se i due nomi fossero intercambiabili. Ma si tratta di un procedimento gravemente scorretto.

Affermare che “Gesù è Dio” non equivale infatti ad affermare che Gesù coincide in tutto e per tutto con Dio. Lo dimostra il fatto che questa pretesa uguaglianza non è invertibile: non possiamo dire che “Dio è Gesù”.

Detto in altri termini: “Gesù è Dio” non è una vera uguaglianza, e pertanto non gode della proprietà simmetrica.

In effetti, “Dio” è usato, in “madre di Dio” e in “Gesù è Dio”, in due sensi diversi. Sono ben tre infatti i sensi in cui, in italiano e nelle moderne lingue di cultura occidentali, può essere impiegato il termine “Dio”: li chiameremo Dio1, Dio2 e Dio3.

 

1) Dio1 : è a tutti gli effetti un nome proprio, per cui si scrive sempre con l’iniziale maiuscola. Indica un essere individuale, unico, che non richiede di essere specificato ulteriormente: è l’essere supremo, creatore e signore dell’universo.

In greco il nome è normalmente preceduto dall’articolo determinativo, che quasi sempre indica il Padre della Trinità cristiana. L’Antico Testamento non conosce la Trinità, perciò nel “conguaglio” con la prospettiva trinitaria ho theós finisce per essere identificato col Padre, cosa che avviene di regola anche nel Nuovo Testamento, in cui figurano sì il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ma non quali persone formalmente definite del Dio trinitario.

In italiano (come in inglese, tedesco, francese e spagnolo) Dio1 è sempre usato senza articolo, come vuole la regola per i nomi propri di persona (in italiano fu in uso pure una forma articolata, che per concrezione dell’articolo ha dato la variante “Iddio”);

 

2) Dio2 : è un sostantivo non numerabile che indica Dio in quanto essere divino, sostanza divina (cfr. “della stessa sostanza del Padre”); di regola è usato in funzione di predicato nominale, con valore partitivo; non è mai accompagnato dall’articolo. Esempi: “Gesù è Dio”, “Dio da Dio, Dio vero da Dio vero”; 

 

3) Dio3 : è un sostantivo numerabile, di regola quindi preceduto o dall’articolo -  determinativo o indeterminativo (cfr. ad es. “il dio cristiano è un dio misericordioso”) - o da un numerale (o indefinito quantitativo: “tre dèi”, “molti dèi”).

Accompagnato dal numerale uno (che in greco – in cui non esiste articolo indeterminativo - ha la forma héis), può indicare il Dio cristiano: héis theós = “un solo dio”, “un unico Dio”.

 

Come si è detto, nella definizione di Maria “madre di Dio” (theotókos) si equivoca tra i sensi 1 e 2. Si afferma infatti che “Maria è madre di Dio” perché “è madre di Gesù, e Gesù è Dio”.

Ma in “Gesù è Dio” il secondo termine dell’uguaglianza, predicato nominale con valore partitivo, è Dio2. Non è possibile quindi sostituirlo a “Gesù” nell’espressione “madre di Gesù”, poiché in tale espressione la struttura sintattica gli conferisce il valore di Dio1.

In effetti, con intonazione neutra il valore partitivo si ha solo quando “Dio” è usato come predicato nominale, non quando è soggetto o oggetto o in caso obliquo, retto da preposizione, come avviene appunto in “madre di Dio”.

 

È possibile vedere in tutto questo un’analogia con quanto accade con l’implicazione logica. In termini logici possiamo infatti dire che Dio1 implica Dio2 (poiché Dio ovviamente è di sostanza divina, è un essere divino), ma Dio2 non implica Dio1 (poiché un essere di sostanza divina non coincide necessariamente con quel che noi correntemente intendiamo con “Dio”).

Ma un’implicazione è un’equivalenza solo quando vale in entrambe le direzioni, ossia quando è una doppia implicazione: x implica y e, al tempo stesso, y implica x.

Allora, e solo allora, parliamo appunto di equivalenza, ovvero di tautologia, e siamo autorizzati a sostituire automaticamente x ad y, e viceversa, in qualsiasi contesto.

Ora, nel nostro caso sappiamo invece che, se possiamo dire che “Gesù è Dio”, non possiamo però dire che “Dio è Gesù”. Di qui l’impossibilità di sostituire meccanicamente “Dio” a “Gesù” nell’espressione “madre di Gesù”.

In altri termini, l’invertibilità dell’uguaglianza è condizione necessaria per l’interscambiabilità dei due termini che la compongono.

 

Facciamo un altro esempio, preso dalla realtà profana. Come si dice “Gesù è Dio”, è senz’altro corretto dire “la Lombardia è Italia”, per indicare che la regione lombarda appartiene alla nazione e allo stato italiani, per cui atterrando alla Malpensa con un volo internazionale ci si trova in un ambiente in cui si parla la lingua italiana e in cui sono in vigore le leggi dello stato italiano.

Si badi che “Italia” in questo senso va usato senza articolo, in modo del tutto analogo al Dio2 che figura in “Gesù è Dio”. È infatti un predicato nominale con valore partitivo, significando all’incirca “terra italiana” (la Lombardia è un pezzo di terra italiana, è parte della terra italiana).

 

Ma, esattamente come nel caso di “Gesù è Dio” che non si può invertire in “Dio è Gesù” (in quanto in quest’ultima frase figura Dio1 anziché Dio2), così non si può dire “l’Italia è Lombardia”.

Per questo non potremo sostituire meccanicamente un termine all’altro in espressioni come “la produzione agricola della Lombardia” o “il presidente della Lombardia”: è chiaro che “la produzione agricola dell’Italia” e “il presidente dell’Italia” indicano realtà rispettivamente diverse.

E se proviamo ad applicare lo stesso procedimento logico usato per giungere a “madre di Dio” (ossia: Maria è madre di Dio perché è madre di Gesù, che è Dio), otteniamo una frase palesemente assurda, quale, ad esempio, “XY è presidente dell’Italia perché è presidente della Lombardia, che è Italia”. 

 

Altri esempi di quanto stiamo dicendo ce li forniscono frasi del tipo “il diamante è carbonio”, a cui non corrisponde ovviamente “il carbonio è diamante”. 

E un esempio famoso, che vale ancora la pena di citare in quanto ci riporta al tema e alla lingua della Bibbia e della teologia , è costituito dall’incipit del Vangelo di Giovanni, “... kaì ho Lógos ên pròs tòn Theòn, kaì Theòs ên ho Lógos”: “... e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio”.

Come si vede, abbiamo prima Dio1 (tòn Theón) e poi Dio2 (Theós). Questo ci conferma quel che abbiamo detto all’inizio, ossia che il greco antico distingue morfologicamente Dio1 da Dio2, in quanto fa precedere il primo dall’articolo determinativo.

Tant’è vero che il titolo della Vergine “madre di Dio” suona in greco non “mêter toû Theoû”, bensì “mêter Theoû” (senza articolo, cioè), che chiaramente allude a Dio2. Questo è in sé teologicamente corretto, se si prescinde da quanto si dirà in seguito circa il fatto che in realtà Maria è madre della sola carne del Verbo incarnato. 

 

Tutto chiaro dunque, senza possibilità di equivoco, per quanto riguarda il greco? No, perché l’espressione più tipica e più tecnica del titolo di Maria, consacrata dai documenti conciliari e diffusasi poi universalmente non è la forma analitica mêter Theoû, bensì quella sintetica theotókos, letteralmente “teogenitrice” (salvo il fatto che la radice greca indica propriamente non il generare, ma il partorire).

Ora, nella parola composta va ovviamente perduta la distinzione tra forma articolata e forma priva di articolo, ossia tra Dio1 e Dio2, sicché il termine è intrinsecamente ambiguo.

 

Per di più, la trasposizione dei termini in latino non poteva non comportare problemi, in quanto questa lingua, non possedendo gli articoli, non può operare alcuna distinzione tra Dio1 e Dio2. In latino quindi l’impossibilità di distinguere non riguarda solo la forma sintetica deipara (che è un calco di theotókos), ma anche quella analitica mater Dei.

E mentre deipara, al pari di theotókos, è termine ambiguo, ossia “neutro” circa la distinzione che ci interessa, mater Dei, per quanto in sé anch’esso ambivalente, di fatto induce immediatamente a pensare a “madre di Dio”, “mother of God” (raro “God’s mother”), “mère de Dieu”, “Mutter Gottes” (accanto a “Gottesmutter”), “madre de Dios”, ossia alla madre del Dio (uno e trino) creatore e signore dell’universo.

Ecco dunque che una concatenazione di forzature di natura linguistica ha fatto dell’umile fanciulla di Nazaret nientemeno che la genitrice del Pantocratore.

 

Vorremmo ancora far notare che i fautori del dogma al concilio di Efeso in fondo si contraddicevano quando rifiutavano la saggia proposta di Nestorio di attribuire alla Vergine il titolo di christotókos.

Proprio in base al loro principio che “Cristo (ovvero Gesù) è Dio” - principio che ancor oggi viene usato come premessa del sillogismo che porta a concludere che Maria è madre di Dio - avrebbero dovuto considerare perfettamente adeguata tale definizione.

Se Nestorio diceva che Maria è madre di Cristo, e per loro Cristo era Dio, la sua definizione avrebbe dovuto andare benissimo anche per loro.

 

In realtà, essi sentivano che christotókos dice molto di meno di theotókos perché “Cristo” e “Dio” non sono affatto termini equivalenti, non sono sinonimi, “coreferenziali”: la relazione di “uguaglianza” che li lega (“Cristo è Dio”) non è una “tautologia” (ragion per cui non possiamo dire “Dio è Cristo”).

Eppure, fraudolentemente, pretendevano – e i loro continuatori pretendono tuttora - di farla passare per tale quando la utilizzano come premessa del loro sillogismo, sostenendo che a Maria spetta il titolo di “madre di Dio” “perché è madre di Cristo, che è Dio”.

In sostanza, Nestorio avrebbe potuto dire ai suoi avversari: “Se voi rifiutate ‘madre di Cristo’ e pretendete che si dica ‘madre di Dio’, è proprio perché per voi ‘Cristo’ e ‘Dio’, contrariamente a quanto affermate nel vostro sillogismo, non sono affatto equivalenti”.

 

N. B.  Nella mirabile espressione dantesca “Vergine madre, figlia del tuo figlio”, Maria è figlia di Dio1 e madre di Dio2. Il “trucco” è tutto qui.

Questo per la precisione del linguaggio teologico.

 

 

Analisi  dei  testi  conciliari

 

La definizione di Efeso

 

1) Vediamo ora come è stato giustificato il titolo mariano nei documenti conciliari che l’hanno ufficializzato. Riportiamo un passo del testo fondamentale scaturito dal concilio di Efeso, dell’anno 431, nella traduzione seguita da A. Amato (“Gesù il Signore”, p. 204):

 

[I santi padri] hanno avuto il coraggio di definire Madre di Dio la santa Vergine, non perché la natura del Logos, cioè la sua divinità, abbia cominciato ad esistere dalla santa Vergine, ma in quanto è stato generato da lei il santo corpo razionalmente animato, unitosi al quale secondo l’ipostasi, diciamo che il Logos è stato generato secondo la carne.

 

Leggendo queste parole, viene spontanea una prima considerazione. È assurdo che la madre cominci ad esistere dopo il figlio, ossia dopo il Logos, ossia dopo “la sua divinità”. I padri conciliari dicono chiaramente che, del Logos, ciò che ha cominciato ad esistere dopo la Vergine (e quindi, precisiamo noi, ciò di cui questa può essere madre) è solo il suo “santo corpo razionalmente animato”.

La stessa cosa dice chiarissimamente A. Amato a p. 208, spiegando appunto il passo di Cirillo a Efeso: “La divinità del Verbo non ha avuto inizio nel seno di Maria, ma ‘ha preso da lei quella natura umana completa che in Lei ha unita a sé secondo l’ipostasi’”.

 

Ecco: la divinità del Verbo non ha avuto inizio nel seno di Maria; dunque Maria non è madre della divinità del Verbo, e quindi non è madre di Dio.

Perciò Amato ha torto quando dice che theotókos qui significa “genitrice del Verbo incarnato”: secondo la spiegazione dei padri conciliari, Maria è genitrice del santo corpo razionalmente animato in cui il Verbo si è incarnato, ossia del corpo a cui il Verbo ha liberamente deciso di unirsi secondo l’ipostasi.

 

E la stessa cosa, in modo forse ancora più chiaro, dice la “formula di unione” del 1433 (v. Amato, p. 205): “professiamo la santa Vergine madre di Dio perché il Dio Logos si è incarnato e si è fatto uomo e per questo concepimento ha unito a sé il tempio che ha assunto da Lei”.

Qui la contraddizione in termini è stridente: proclamiamo Maria madre di Dio, dicono i padri, proprio perché lei è la madre del solo corpo che “il Dio Logos” “ha unito a sé” assumendolo da lei.

La formulazione è particolarmente diretta e direi quasi brutale: l’iniziativa è interamente del Logos (non del Padre o dello SS o della Trinità), che prende (assume) un corpo da Maria (alla quale ovviamente, come già abbiamo veduto, preesiste) e lo unisce a sé. Il ruolo di Maria viene presentato a tutti gli effetti come quello di “fornitrice di un corpo” al Dio Logos, che provvede a unirlo a sé.

 

Conta poco che questo corpo venga sublimato mediante la metafora del tempio: Maria è in ogni caso la madre “del tempio”, non del Dio Logos; non del Verbo incarnato, ma della carne del Verbo incarnato.

Direi che secondo questa formulazione il Verbo incarnato non appare generato, ma autogeneratosi, e Maria recita solo la parte dell’incubatrice.

Assurdo dunque, sommamente illogico, allegare tale descrizione dell’Incarnazione come fondamento teologico del titolo di “madre di Dio”.

 

N. B. 1. In ogni caso, per un minimo di correttezza e di onestà, si sarebbe dovuta definire Maria theotókos katà (tèn) sárka (“secondo la carne”; e ancora più corretto sarebbe christotókos katà [tèn] sárka).

 

N. B. 2.  Ghennêsthai léghetai xatà sárka alla fine del passo (Amato: “diciamo che” ...  DS: “si dice che” ...) ha l’aspetto di una formula attenuativa che chiede involontariamente venia per l’improprietà del linguaggio teologico, ossia per l’illogicità della conclusione: forse si potrebbe tradurre “per così dire (o ‘come si suol dire’) nato secondo la carne” (ovvero: “potremmo dire che ...”).

 

N. B. 3.  Poco prima dell’affermazione su Maria, nel documento di Efeso (cf. Amato 204) figura un’affermazione chiarissimamente antichenotica: “... è nato come uomo da una donna senza perdere il suo esser Dio ed esser stato generato da Dio Padre, ma continuando ad essere ciò che era anche nell’assunzione della carne”. Questo smentisce frontalmente Fil 2, 7.

Degna di nota l’ipocrisia con cui Amato cerca di conciliare i due passi: “Questo passaggio del Figlio di Dio nella condizione di ‘uomo’, anzi di ‘servo’, costituisce un atto di svuotamento e di umiliazione, che raggiunge il suo culmine nella morte in croce. La kenosi, però, non implica una diminuzione nella sua natura divina. Indica invece la totalità del suo dono nel servire la volontà del Padre e la profonda tragicità di questo suo impegno” (p. 319).

 

È come se si dicesse: “X ha donato ai poveri metà dei suoi averi. Ciò però non implica una diminuzione del suo patrimonio; indica invece la grandiosità dei suoi slanci filantropici”.

Morale: se non vi è stata diminuzione del patrimonio, X non ha donato un bel niente; ma con ciò non si provvede a dichiarare falsa l’asserzione iniziale, secondo cui metà degli averi sono stati donati ai poveri. Questa rimane vera (con gli eventuali corollari teologici che fanno comodo); ma con la “precisazione” che “ciò però non implica che vi sia stata diminuzione del patrimonio”, ossia rifiutando i corollari scomodi.

Teologia e Scrittura à la carte.

 

2) Nella prima parte della “Formula di unione” si proclama Gesù Cristo “nato dal Padre prima dei tempi secondo la divinità, e negli ultimi giorni nato da Maria Vergine secondo l’umanità”.

Ecco, dunque: ancora una volta tutto è chiarissimo: Maria è madre di Gesù Cristo non secondo la divinità, ma “secondo l’umanità”.

E non si vede proprio come si possa essere “madre di Dio” “non secondo la divinità”. È una contraddizione in termini clamorosa.

 

Di fatto, il legame tra l’umanità di cui Maria è realmente madre e la divinità di cui non è madre è dato da Gesù vero Dio e vero uomo.

In altri termini, da questo passo, di capitale importanza, si deducono due cose:

 

a) L’essere di cui Maria è madre deve necessariamente possedere l’umanità: dev’essere perciò non Dio, che è purissimo spirito, bensì un essere teandrico (si ricordi il theántropos di Origene), un Dio-uomo o uomo-Dio che dir si voglia: non si può essere madre di Dio secondo l’umanità se Dio non è anche uomo; proprio per questo si dice che “madre di Dio” è titolo cristologico, implica l’incarnazione;

 

b) di questo essere teandrico Maria è madre dell’uomo, non del Dio.

 

 

Conclusione su Efeso

 

La maternità divina di Maria è dunque di fatto negata dallo stesso Concilio di Efeso (col codicillo aggiuntivo della “Formula di unione”) che pure la proclama ufficialmente. In effetti, la “precisazione” di cui pudicamente parla Amato (p. 208: “La divinità del Verbo non ha avuto inizio nel seno di Maria”, ecc.) di fatto contraddice e quindi smentisce la definizione stessa, svuotandola di significato: Maria, appena definita “madre di Dio”, è in effetti madre, si ...“precisa”, del solo corpo a cui Dio si è unito.

È questo un procedimento tipico della teologia: si fa un’affermazione paradossale (in teologia, e specialmente in mariologia, l’importante  è esagerare: il “De Maria numquam satis” diventa fatalmente “De Maria semper nimis”), accompagnandola però con una motivazione, un chiarimento, una ... “precisazione” che rimette le cose a posto e consente di salvare le apparenze sotto il profilo della logica e del rigore formale, ma che di fatto priva di ogni valore l’asserzione stessa. Si toglie con una mano quel che si è appena dato con l’altra.

 

Dobbiamo allora concludere che, dato che l’affermazione e la “precisazione” si elidono, siamo rimasti al punto di partenza? Nient’affatto. L’affermazione (ossia la definizione, la proclamazione) avrà infatti larghissima eco, troverà rispondenza nel sensus fidelium, soprattutto verrà accolta nella liturgia (e si sa che “lex orandi lex credendi”!); la precisazione dogmatica resterà invece pascolo privato del teologo, sarà riservata agli addetti ai lavori.

La folla che accolse la definizione di Efeso sciamando esultante per le strade, o non sapeva nulla della “precisazione” di cui tale definizione era corredata o non se ne dava pensiero, incapace di cogliere il velen dell’argomento tra le sottigliezze del linguaggio teologico.

 

E d’altronde il teologo stesso ben presto non può che prendere atto della definizione magisteriale, che sarebbe comunque vano contestare (chi mai potrebbe pensare di togliere dall’Avemaria il “Sancta Maria, mater Dei”?), e la utilizza come punto di partenza per nuove acquisizioni.

Sicché le uniche sedi in cui le “precisazioni” scomode figurano sono i trattati di dogmatica e le monografie erudite, dove però di regola non vengono esplicitate sino a trarne le ultime conseguenze, mettendo a nudo cioè la loro incompatibilità con l’asserzione che esse dovrebbero “precisare”.

 

Una “precisazione” frequentemente impiegata nella divulgazione teologica e nella catechesi è costituita dalla formula “non nel senso che”. Nel nostro caso, parlando di Maria “madre di Dio” si usa dire: “non nel senso che Dio abbia una madre, ma nel senso che Maria è madre di Gesù, il quale è anche Dio”.

Viene spontaneo ribattere: Ma perché mai “non nel senso che ...”? Perché mai, in base a quali criteri logici e linguistici deve venire escluso a priori proprio quello che è il senso primario, fondamentale, imprescindibile di un’espressione?

 

Quando io dico che “X è madre di Y” intendo dire, al di là di ogni possibile dubbio, che Y ha una madre, che è stato partorito, che è stato messo al mondo. È assolutamente illegittimo escludere tale significato considerandolo aberrante e blasfemo, come fa invece nel nostro caso la catechesi.

Equivale a fare un’affermazione respingendo nel contempo sdegnosamente i suoi corollari. Si potrebbe parlare di “teologia del non nel senso che”, per analogia con la “filosofia dell’als ob” di Vaihinger.

 

E anche un teologo come Bruno Forte non può sottrarsi a questo “gioco sporco”, non può fare a meno di barare quando deve giungere a spiegare la singolarità di theotókos.

Dice che la “precisione teologica” del testo conciliare di Efeso (e poco oltre parla di “rigore teologico”) “esclude ogni falsa comprensione del titolo di "genitrice di Dio"”: “esso non sta a dire che Maria è "genitrice della divinità", ma che è la madre del Verbo incarnato” (“Maria, la donna icona del Mistero”, p. 115).

Già; ma allora perché, anziché definirla “genitrice di Dio” non la si definisce appunto, direttamente, “madre del Verbo incarnato”, ossia proprio christotókos, come era disposto a concedere Nestorio? Perché avallare un titolo improprio sotto il profilo del “rigore teologico”, per poi ricorrere sistematicamente al testo completo del documento per eliminare l’equivoco suggerito dal titolo stesso?

Questo significa semplicemente che vi è contraddizione tra il titolo e le motivazioni teologiche addotte per giustificarlo. In altri termini, significa che chi ha foggiato la definizione ha barato.

 

Per concludere sui lavori di Efeso, non sarà inutile ribadire che la definizione di “madre del Verbo incarnato”, da noi presentata come “accettabile”, è anch’essa, sia pur meno grossolanamente, impropria, poiché il testo conciliare, come abbiamo visto, dichiara Maria madre non del Verbo (neppure del Verbo incarnato, dunque), ma del corpo in cui il Verbo si è incarnato, ossia “del santo corpo razionalmente animato [quindi corpo e anima umana] che il Logos ha unito a sé”.

Per cui, “precisano” i padri conciliari, quasi scusandosi dell’inadeguatezza del linguaggio usato, “diciamo che il Logos è stato generato secondo la carne”. Potremmo dire, con un bisticcio significativo, che la “precisazione” serve a chiedere venia dell’ “imprecisione” terminologica.

 

N. B. A Efeso, nel 431, si lavora sulla base del Simbolo di Nicea (325), perché quello di Costantinopoli del 381 “viene ignorato”: “sarebbe stato conosciuto solo a Calcedonia” (Amato, pp. 202 e 208). Evidentemente lo Spirito Santo si era dimenticato di far pervenire il testo in tempo utile alla segreteria del Concilio. Certo, a quei tempi, le comunicazioni ...

Impossibile, per un non addetto ai lavori, trattenere una domanda irriverente: Ma è una cosa seria? Non ha, si perdoni, qualcosa di farsesco? Sino a tal punto Dio ha abbandonato a se stessa la sua Chiesa?

 

Il Concilio di Efeso dunque, col suo coronamento costituito dalla “formula di unione”, ha in sostanza proclamato che Gesù Cristo in quanto Dio è nato dal Padre prima di tutti i secoli, e in quanto uomo è nato dalla Vergine “negli ultimi giorni”. Poiché però Maria è “madre di Dio”, se ne ricava che paradossalmente Gesù in quanto uomo è nato dalla madre di Dio.

E non vi sono stati due diversi parti di Maria: Gesù in quanto uomo è nato proprio dallo stesso unico parto in cui Maria ha partorito Dio diventando theotókos (da tíkto, partorire).

 

A. Amato (p. 207) difende la bontà del procedimento con l’argomentazione teologica di rito: “La dottrina mariologica di Efeso è una conseguenza del dogma cristologico, espresso dalle affermazioni-chiave: ‘unione secondo l’ipostasi’ e communicatio idiomatum. Infatti, se in Cristo l’unione tra la natura divina e la natura umana avviene secondo la sussistenza (e non secondo la sostanza), è legittimo affermare che il Verbo è realmente nato dalla vergine Maria”.

Ma ciò è scorretto, anche in termini di pura applicazione scolastica della communicatio idiomatum (“scambio delle proprietà”), poiché quando si precisa “in quanto Dio” o “in quanto uomo” (funzione nel nostro caso assolta dalle formule conciliari “secondo la divinità”, “secondo l’umanità”) non si possono più attribuire al soggetto (Gesù, Cristo, Figlio dell’uomo, Verbo incarnato) le proprietà dell’altra natura.

Possiamo infatti dire (pur con tutte le riserve del caso, su cui qui sorvoliamo) che “uno della Trinità ha patito nella carne” (v. DS 401 e 635), in virtù della norma or ora enunciata da Amato; ma non potremo mai dire che “uno della Trinità in quanto Dio (ovvero ‘secondo la divinità’) ha patito nella carne” (v. DS 636).

 

 

La conferma di Calcedonia 

 

Nell’anno 451 il concilio di Calcedonia, perfezionando la dottrina uscita da Efeso circa le due nature e l’unica persona di Cristo, torna a toccare la questione del titolo theotókos di Maria, su cui non fa che ribadire la conclusione paradossale che era scaturita dal concilio precedente. Riportiamo dal testo di Amato la prima parte della definizione, sino al punto che riguarda il nostro problema:

 

1.        Seguendo pertanto i santi padri,

4.        insegniamo tutti concordemente

2.        a confessare che l’unico e identico Figlio

3.    il Signore nostro Gesù Cristo

5.        è egli stesso perfetto in divinità

6.        ed egli stesso perfetto in umanità,

7.        Dio veramente e uomo veramente,

8.        [composto] egli stesso di anima razionale e di corpo,

9.        consustanziale al Padre secondo la divinità,

10.    ed egli stesso consustanziale a noi secondo l’umanità,

11.    in tutto simile a noi fuorché nel peccato,

12.    generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità,

13.    e negli ultimi giorni

14.    egli stesso per noi e per la nostra salvezza

15.    da Maria la vergine Madre di Dio secondo l’umanità.

 

(corsivi nostri; all’inizio, lo spostamento dei versetti rispetto al testo greco è ovviamente dovuto ad esigenze della traduzione).

 

Esaminando questo passo, vediamo che il “madre di Dio” del v. 15 (Theotókou nel testo greco) è in flagrante contraddizione con “secondo l’umanità” dello stesso verso, mentre per contro “secondo l’umanità”  si concilia perfettamente con i vv. 3, 5, 6, 7.

È quindi proprio Theotókou il corpo estraneo; tutto si risolverebbe sostituendo Theotókou con Christotókou, il quale corrisponde esattamente, a parte la differenza di caso, a “il Signore nostro Gesù Cristo” che figura nel v. 3 ed è il soggetto di tutto il lungo e complesso periodo. Il termine corretto, proprio secondo il testo della definizione calcedonese, sarebbe dunque Cristotókos katà tèn anthropóteta (“genitrice di Cristo secondo l’umanità”).

 

In sostanza, il v. 15 della definizione di Calcedonia, confermando quanto era stato proclamato ad Efeso, afferma assurdamente che Maria è divenuta madre di Dio mettendo al mondo Gesù in quanto uomo (“secondo l’umanità”). Ossia: Maria viene definita “madre di Dio” proprio perché ha generato Gesù non in quanto Dio.

Si potrebbe parlare di un vero e proprio colpo di mano teologico, una sorta di “brigantaggio di Calcedonia”, da affiancare al famigerato “brigantaggio di Efeso” di due anni prima.

 

Vale la pena di notare che san Tommaso descrive la situazione – intrinsecamente assurda - quasi negli stessi termini nostri: “Si deve quindi affermare che la Beata Vergine Maria è madre di Dio non nel senso che sia madre della divinità, ma perché è madre, secondo l’umanità, di una persona che possiede la divinità e l’umanità” (S. Th., III, q. 35, 4, ad 2).

Naturalmente egli, che pur dà l’impressione di non essere pienamente convinto dell’argomentazione che presenta, si guarda bene dal sottolineare l’assurdità della conclusione raggiunta.

  

 

Le bizzarre conseguenze terminologiche della definizione

 

Il fatto che la maternità divina non possa fondarsi teologicamente sul documento di Efeso, sulla formula di Unione e sulla definizione di Calcedonia, che di fatto la negano, induce la catechesi a ripiegare correntemente sull’applicazione del tutto meccanica della regoletta della communicatio idiomatum, per la quale, come sappiamo, in riferimento a Gesù Cristo, “gli attributi di una delle sue due nature possono essere predicati di lui anche quando lo si nomina in riferimento all’altra natura” (“Dizionario sintetico di teologia”, L.E.V., s.v.).

La proposizione “Gesù è Dio”, formalmente corretta in base a tale regola, risulta però di fatto fuorviante, come abbiamo visto, in quanto in essa “Dio” è usato in un senso diverso da quello che ha in “madre di Dio”. 

 

Ma ancor più grave è il fatto che la regoletta, applicata appunto meccanicamente, ha il serio inconveniente di produrre dei “mostri”, ossia di consentire anche la coniazione di innumerevoli altre espressioni tutt’altro che edificanti, da “sant’Anna nonna di Dio” a “il naso di Dio” (passando magari per “Giuseppe padre di Dio”).

I padri conciliari avevano lavorato sulla distinzione delle due “nascite” del Verbo, secondo la divinità e secondo l’umanità; sicché potevano avere l’impressione di essere pervenuti a una formula cucita su misura per la Vergine, dalla quale il Cristo era nato nella carne.

Ma in realtà avevano solo sfruttato l’illusoria equivalenza tra Cristo (Gesù, Verbo incarnato) e Dio, senza pensare che il procedimento deduttivo da loro avallato poteva applicarsi a innumerevoli altre situazioni non aventi alcun legame con la nascita del Logos da Maria.

 

Per fare un esempio, cui già abbiamo già accennato: sant’Anna (immaginando, secondo la pia tradizione, che tale fosse il nome della madre della Vergine), in quanto nonna di Gesù, può a buon diritto definirsi, dal momento che Gesù è Dio, “nonna di Dio”; e “nonno di Dio” sarà san Gioacchino. Quanto a san Giuseppe, sarà “padre di Dio” (o, tutt’al più, “padre putativo di Dio”).

Allo stesso modo, e per la stessa ragione, i cugini di Gesù saranno “cugini di Dio”, i suoi vicini di casa “vicini di casa di Dio”, e i suoi concittadini “concittadini di Dio”; mentre il suo naso, già si è detto, potrà legittimamente definirsi “naso di Dio”.

 

Il fatto che tali formule siano prive di interesse teologico, oltre che blasfeme nella loro stravaganza, non significa che non siano corrette sotto il profilo formale (nell’ipotesi, beninteso, che per Maria sia corretta la definizione di “madre di Dio”).

Qui si citano proprio per mostrare, attraverso un processo di reductio ad absurdum, che quest’ultima definizione è stata ottenuta con un procedimento logico scorretto. Con lo stesso procedimento se ne possono infatti ottenere innumerevoli altre parimenti legittime, la cui bizzarria (e si potrebbe giungere sino all’oscenità) sta appunto a dimostrare l’inconsistenza della definizione su cui sono modellate.

 

Naturalmente non serve a nulla obiettare che Dio non ha una nonna, non ha vicini di casa e non ha un naso; poiché, come sappiamo, Dio non ha neppure una madre.

Si risponderà all’obiezione dicendo che sant’Anna è nonna di Dio non nel senso che Dio abbia una nonna, ma nel senso che è nonna di Gesù, il quale è Dio, ossia il Verbo eterno che ha unito a sé una natura umana. E lo stesso varrà per i vicini di casa di Dio e per il suo naso.

Se poi, anziché con la sbrigativa applicazione della communicatio idiomatum, si volessero giustificare le nuove formule con le elaborate espressioni degli antichi documenti conciliari, basterebbe dire ad esempio che “il Logos, nato prima di tutti i secoli senza naso secondo la divinità, è nato negli ultimi giorni secondo l’umanità provvisto di naso”; oppure che il “naso di Dio” è “il naso del santo corpo razionalmente animato che il Logos ha unito a sé”; e così via.

 

Per scongiurare tali conseguenze, la riflessione teologica dovrebbe reperire una “regola” che, mentre legittima la definizione “madre di Dio” per Maria, “blocchi” la formazione delle innumerevoli altre formule analoghe.

Un tentativo in tal senso si potrebbe fare puntando sul fatto che la maternità è una relazione che coinvolge la persona (“termina sulla persona”, come dice Laurentin nel “Breve trattato sulla Vergine Maria”, pp. 223-24). Ma si vede immediatamente che espressioni come “nonna di Dio” non vengono toccate da questa considerazione, poiché la nonna non è che la madre della madre, quindi per quella che chiameremo la “nonnanza”, ossia la relazione nonna/nipote, vale in tutto e per tutto quel che vale per la maternità (la relazione madre/figlio).

E lo stesso si può dire per le altre relazioni che coinvolgono persone, quali i cugini, i vicini di casa e i concittadini.

 

Un discorso un po’ più articolato meritano espressioni in cui figurano nomi di cose inanimate, come nel caso del “naso di Dio”.

È di fede, come abbiamo or ora visto, che “Dio [ovvero ‘uno della Trinità’] ha sofferto nella carne” (DS 401). Ora, tale sofferenza non poté essere che sofferenza della persona (cfr. S. Th., III, q. 46, 12: “la passione di Cristo va attribuita al supposito di natura divina in forza della natura passibile che assunse ...”).

Ma non sarebbe stata possibile se quella carne non fosse stata carne di quella persona. A parte le sofferenze psicologiche, Cristo soffrì nella sua persona divina perché veniva flagellato e crocifisso nella sua propria carne, ossia in quella carne che apparteneva alla natura umana a cui la sua persona divina si era unita.

In altri termini: Gesù ha sofferto in quella stessa carne di cui Maria era –tókos, genitrice; in quella stessa carne che Maria aveva partorito.

 

Dicendo perciò che uno della Trinità ha sofferto nella carne non si intende affatto alludere a una generica condivisione da parte di Dio delle sofferenze fisiche degli uomini, bensì alla sofferenza prodotta dai colpi di frusta e dai chiodi su quella pelle, su quelle mani e quei piedi che appartenevano, come natura umana, alla persona divina di Cristo, la quale non era altro che il Verbo, ossia uno della Trinità, ossia Dio.

Quelle mani e quei piedi potevano dunque a buon diritto definirsi mani di Dio e piedi di Dio. Per cui il naso di Gesù è il naso di Dio, in virtù della communicatio idiomatum, con la stessa legittimità con cui possiamo definire Maria di Nazaret “madre di Dio”.

 

Una madre, si afferma, è madre della persona, e non solo del corpo del figlio. È vero; ma è madre della persona - e proprio di quella, non di un’altra – solo in quanto ha partorito quel corpo. Ciò significa che la relazione di maternità può “finire” nella persona solo in quanto sussiste una relazione di appartenenza tra il corpo e la persona: ogni corpo, ogni “carne”, ha la sua persona, e viceversa.

Dio dunque ha potuto patire perché i piedi e le mani trafitti sulla croce “appartenevano” alla persona divina di Cristo. E poiché è chiaro che dovevano appartenerle anche prima di venire trafitti, indipendentemente dalla sofferenza, essi erano già, comunque, i piedi di Dio e le mani di Dio.

 

Per concludere: l’applicazione della communicatio idiomatum che legittima il titolo di “madre di Dio” per Maria legittima altresìè impossibile evitarlo – tutti i titoli del tipo “nonna (cugino, padre, amico, vicino di casa ...) di Dio”; nonché tutti quelli del tipo “naso (intestino, milza, genitali ...) di Dio”, con riferimento, rispettivamente, a parenti e conoscenti di Gesù e a parti del suo corpo (nonché, tra l’altro, alle sue sensazioni, v. ad es. “il prurito di Dio”).

 

Potrebbe tutt’al più venire messa in dubbio la legittimità di espressioni del tipo “i sandali di Dio”, “la tunica di Dio”. Ma è evidente che, anche volendo sostenere che gli oggetti materiali appartengono al corpo anziché alla persona, vale sempre quanto si è or ora detto circa il legame di appartenenza tra il corpo e la persona, sicché per via indiretta si stabilisce pur sempre una relazione di appartenenza tra l’oggetto e la persona stessa.

Del resto, se consideriamo la relazione di “possesso” nella sua valenza giuridica, sarà difficile negare che essa coinvolga la persona (la quale, in quanto soggetto di diritti - tra cui fondamentale quello di proprietà - è appunto definita “persona giuridica”); sicché possiamo affermare una relazione diretta anche tra l’oggetto posseduto e la persona del possessore.

 

 

Non mi risulta che i padri conciliari di Efeso e tutti i teologi venuti dopo di loro si siano mai preoccupati di verificare se gli argomenti utilizzati a sostegno del termine theotókos non si prestassero alla coniazione e legittimazione di innumerevoli altre espressioni del genere.

L’impiego della forma sintetica theotókos in luogo di quella analitica mêter Theoû in effetti contribuisce a nascondere il problema soggiacente. Ma quando nel mondo latino divenne comune (e prevalente rispetto a “deipara”) la forma “mater dei” ci si sarebbe dovuti accorgere di quanto fosse facile costruire su quel modello innumerevoli espressioni del tutto prive di contenuto teologico e tali quindi da banalizzare la formula dogmatica.

 Se veramente non vi è stata tale verifica – con la debita specificazione del motivo per cui gli argomenti validi per la maternità divina non potevano valere per altre relazioni analoghe -, si è trattato di un’enorme ingenuità teologica.

In ogni caso, i motivi che eventualmente differenzino “madre di Dio” da “nonna di Dio” e “naso di Dio” vanno presentati – o ripresentati – e sostenuti oggi.

 

Va detto che la maternità costituisce in effetti un caso a sé, perché è uno di quelli in cui è possibile in greco usare un suffisso verbale (nel nostro caso –tókos); e per gli altri casi la lingua greca potrebbe comunque distinguere usando la forma analitica con Theós senza articolo.

Ma per tutte le altre principali lingue dell’ecumene cristiana ciò non vale. Perciò potremo forse scusare i padri conciliari, almeno quelli di lingua greca; ma non coloro che introdussero e resero ufficiale la forma mater Dei, su cui si sono poi modellate le espressioni corrispondenti delle varie lingue moderne.

 

 

N. B.   Altre considerazioni sul tema di theotókos, a mo’ di commento della tesi di fondo qui presentata, si trovano, in questa stessa sezione, nello studio Postille su ‘madre di Dio’.

 

 

 

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