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controapologetica
 
Sunday, 29 June 2025
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                            Le Vite di Maria

 

 

 

 

Avvertenza.  Per le citazioni dall’opera dell’Ágreda seguiamo MCD1 (v. “Abbreviazioni” alla homepage) per ragioni di semplicità - in quanto vi si adotta una numerazione continua dei paragrafi - e di praticità, trattandosi dell’edizione di gran lunga più diffusa e accessibile.

 

 

 

Nell’ambito delle rivelazioni private, le Vite di Maria, ossia le autobiografie dettate dalla Vergine a qualche “mistica” (si tratta di regola di donne), costituiscono un genere letterario a sé.

A tale genere appartengono pure, benché più rare, le Vite di Gesù o di san Giuseppe, di cui qui non parliamo ma per le quali valgono le medesime considerazioni che qui si fanno per le biografie di Maria.

 

A noi tali opere interessano non tanto per le modalità della comunicazione (sono per lo più quelle della locuzione interiore) quanto per l’atteggiamento tenuto dalla Chiesa nei loro riguardi.

 

Le Vite della Madonna, infatti, pur procurando assai meno grattacapi delle apparizioni (rispetto alle quali sono del resto assai più rare), impegnano anch’esse il discernimento dell’autorità ecclesiastica, e si prestano in modo eccellente a illustrare quella sorta di schizofrenia, che abbiamo qua e là segnalato, tra il desiderio di rifiutare le rivelazioni private in quanto cariche di insidie e la tentazione di sfruttarle per quel che possono offrire in termini di edificazione.

 

Abbiamo già detto che le biografie della Vergine sarebbero da respingere immediatamente come puri “romanzi storici”, in quanto il loro contenuto, pure in assenza di asserzioni di rilevanza teologica, è per forza di cose costituito da aggiunte alla Rivelazione.

D’altro canto, abbiamo però sottolineato che a una raccolta di dati biografici su Maria proveniente dalla viva voce dell’interessata, per il tramite di una “veggente” di cui si riconosca il carisma, è oggettivamente difficile rifiutare un’autorevolezza quanto meno pari a quella dei vangeli, pur se lo statuto delle rivelazioni private lo esclude nel modo più assoluto. Per il fedele è chiaro che, se lì è veramente la Madonna a parlare, il grado di certezza è il massimo che si possa avere; e è difficile dargli torto.

Dal canto suo la Chiesa, mentre si mostra intransigente sul piano teorico, in pratica fa numerose concessioni al sensus fidelium, evitando di pronunciare condanne esplicite di opere che, pur potendo considerarsi esempi di vero e proprio malcostume intellettuale, riscuotono grande successo presso il pubblico dei devoti.

 

A dire il vero, le vite di Maria trovano la loro ragion d’essere in quella che è di fatto una vera e propria provocazione da parte della Scrittura, o meglio del suo autore, lo Spirito Santo. Il quale fa nascere nei fedeli uno spasmodico desiderio di sapere almeno qualcosa su Maria e la Sacra Famiglia, ma poi non ci dice, su questo, assolutamente nulla. È uno sfacciato “indurre in tentazione”.

 

I problemi non si risolvono dicendo che tanti particolari biografici avrebbero potuto disturbare nei Vangeli, distogliendo l’attenzione dall’opera di Cristo, mentre possono venir divulgati ad evangelizzazione in gran parte compiuta.

In primo luogo, infatti, resta la questione del ruolo da attribuire alla veggente, che finisce per venire di fatto equiparata a un evangelista, e quindi dovrebbe essere la prima a interrogarsi sullo straordinario compito affidatole nella storia della salvezza. È un po’ come se si dicesse: “Quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò la venerabile Ágreda (o Maria Cecilia Baj, o Caterina Emmerick, o Maria Valtorta, ecc.) per rivelare agli uomini vita morte e miracoli della Vergine Maria”.

Per di più, come potrebbe la veggente non porsi il problema del senso, della funzione della sua opera pensando alle altre simili che l’hanno preceduta, pure dettate personalmente dalla Vergine? Spesso infatti, come ricorda Laurentin, tra una “Vita” e l’altra vi sono differenze non trascurabili e non conciliabili.

 

In secondo luogo, come non rendersi conto dell’enorme, ridicola diversità di mole tra i dati evangelici e quelli forniti in queste rivelazioni, i quali risultano superiori di cento o mille volte?

Come giustificare la disparità di trattamento tra i fortunati fedeli che di colpo dispongono di tanti dettagli e quelli vissuti prima della veggente? 

 

Accanto ai tanti problemi “di metodo” suscitati da queste Vite della Madonna ve n’è poi uno “di contenuto” che merita di essere segnalato in modo particolare, ed è quello della luce ambigua che esse inconsapevolmente gettano sulla figura di Maria, e soprattutto sulla sua asserita impareggiabile umiltà.

La Vergine infatti, dopo aver raccomandato agli evangelisti di scrivere di lei il meno possibile (lo confida lei stessa all’Ágreda, ed è questa del resto una tesi apologetica per spiegare l’esiguità dei dati evangelici riguardanti Maria), dà istruzioni di scrivere una sua biografia contenente sperticati elogi delle sue innumerevoli virtù, nonché un impressionante elenco di eccezionali privilegi.

Nella biografia stessa poi si riferisce che fu proprio lei, Maria, a raccomandare agli evangelisti di  scrivere di lei solo lo stretto necessario alla fede perché … la sua umiltà le rendeva insopportabile l’idea che essi dicessero tutto quanto lei aveva fatto! Il che, tra l’altro, indica che lei era convinta di aver fatto cose degne di altissimo plauso. Umiltà veramente pelosa.

 

È sconcertante insomma che una “Vita di Maria” improntata a un’esaltazione iperbolica quale è ad esempio quella dell’Ágreda sia stata scritta dalla veggente dietro rivelazione e per ordine espresso della Vergine medesima: “assicurandomi per questo mezzo [ossia l’obbedienza ai superiori e confessori] essere stata volontà di Dio che la scrivessi e obbedissi alla sua beatissima Madre, che da molti anni me l’ha raccomandato” (MCD2, p. XVII).

La “stranezza” tocca il colmo quando sentiamo Maria stessa dire (nella sintesi di MCD1): “Nessun uomo potrà nel vero senso essere umile come io feci” (§ 1252). 

 

 

Carattere e struttura delle Vite di Maria

 

Cerchiamo ora di esaminare un po’ più a fondo la natura di queste ricchissime biografie mariane.

Sugli scarni dati evangelici, i Padri, la devozione popolare e il Magistero hanno costruito l’edificio smisurato della mariologia, in omaggio al principio “de Maria numquam satis”: di Maria non si dice mai abbastanza (e mai bene abbastanza, s’intende).

 Ora, il mistico che scrive una Vita di Maria (o di Gesù, come nel caso della Valtorta, ma con un particolare rilievo per la figura di Maria) si assume il compito inebriante di prendere questo enorme, ipertrofico “depositum fidei” e di trasporlo in forma narrativa, quasi fosse un nuovo vangelo (cfr. il nuovo titolo dell’opus magnum della Valtorta: “Il Vangelo come mi è stato rivelato”).

 

Il procedimento richiama quello della “retroversione”, per cui si prende una traduzione e la si ritraduce nella lingua originale. Se entrambe le versioni sono state condotte in modo appena un poco libero, il risultato è spesso bizzarro.

Nel nostro caso, sia l’amplificazione teologica dei dati evangelici sia la trasposizione in termini di fiction operata dal mistico sono oltremodo libere e “creative”; sicché il nuovo “vangelo” può arrivare a somigliare a quello originale come una bertuccia somiglia a una coccinella.

 

Il paragone non sembri forzato. Se si confrontano il “Vangelo” della Valtorta o la “Vita” dell’Ágreda con uno qualsiasi dei vangeli canonici, per quanto riguarda la figura della Vergine, direi che le somiglianze sono sensibilmente inferiori a quelle intercorrenti tra bertuccia e coccinella; le quali in fin dei conti necessitano entrambe di acqua, di aria, di luce e di sostanze nutritive, ed entrambe si muovono e si riproducono.

“Il Vangelo come mi è stato rivelato” è, per un verso, il Vangelo come dovrebbe essere stato scritto perché se ne potesse ricavare tutta la teologia (e in particolare la mariologia) che ne è stata ricavata; per un altro verso, è il Vangelo come vorrei che fosse stato scritto, in quanto l’autrice, imbevuta appunto di quella teologia, avverte dolorosamente il gap abissale esistente tra quest’ultima e il quadriforme vangelo canonico (in particolare per quanto riguarda i rapporti tra Madre e Figlio).

 

In altre parole, si creano “fatti” di supporto ai dogmi: abbiamo una produzione sistematica di theologúmena concatenati.

Absit iniuria verbis (ma Benedetto XVI autorizza l’accostamento avendo a suo tempo parlato di “masturbazione spirituale” per definire certe tecniche di meditazione orientale), ritroviamo qui la fenomenologia di una pratica autoerotica: io immagino quanto più corrisponde ai miei desideri, scambio l’immaginazione con la realtà e mi sento sommamente appagato. Chi ha il diritto di intromettersi e di rimproverarmi? Faccio forse del male a qualcuno?

 

Stando così le cose, diviene quasi tautologico il giudizio, che spesso si sente ripetere, di conformità di una biografia mariana al deposito della fede: la conformità sostanziale è di regola automaticamente garantita dal fatto che la sistemazione teologica è proprio il punto di partenza della ricostruzione biografica.

Si tratta di fatti ricavati dalla dottrina, non di dottrina ricavata dai fatti.

 

Per questo motivo le “vite” di Gesù e di Maria scritte dalle mistiche o dai mistici servono indirettamente a mettere in luce i punti deboli, i passi problematici, le inverosimiglianze e le contraddizioni di varia natura presenti nei racconti evangelici.

Dove infatti si trova qualche problema per l’esegesi e l’apologetica, il veggente interviene integrando il racconto con particolari che rimettono le cose a posto, almeno a suo giudizio. Ad esempio:

 

Crea problemi il fatto che Maria e Giuseppe al momento dell’Annunciazione non coabitino ancora? Bene, li si fa coabitare (castamente, s’intende).

Sembra poco verosimile che una fanciulla tredicenne se ne vada tutta sola a visitare la parente in Giudea? Non c’è problema: la si fa accompagnare da Giuseppe, che poi andrà anche a riprenderla per condurla a casa.

Pare poco opportuno che Maria non dica nulla allo sposo di quel che le è accaduto? Semplice, le si fa dare direttamente da Dio l’ordine di mantenere il segreto.

Disturba il fatto che Gesù si rivolga sempre a Maria chiamandola ‘donna’? Gli si mette sulle labbra una sequela di ‘madre’ e di ‘mamma’.

Sorprende che egli non appaia alla madre una volta risorto? Lo si fa apparire a lei prima che a chiunque altro.

Pare inescusabile la distrazione dei due santi sposi in occasione della scomparsa di Gesù dodicenne? Si rimedia presentando Maria presa da una “visione intellettuale della divinità” e Giuseppe assorto in un’ “altissima contemplazione”. E così via.

 

Di fronte a certi problemi esegetici, il biblista ortodosso profonde tutto il suo ingegno, tentando di salvare il salvabile; ma a volte l’impresa è disperata, poiché i dati evangelici son quelli che sono, e il salvataggio riesce solo a metà, o non riesce per nulla.

Il mistico non conosce queste difficoltà: non può certo smentire (di regola, almeno) le informazioni contenute nel testo sacro, ma può crearvi intorno a suo piacimento un “contesto” – a volte esorbitante nella misura di dieci o cento contro uno – in cui il passo problematico finisce per affogare acquistando tutt’altro senso e portata.

La Valtorta giunge persino, come vedremo, a presentarci Gesù che fornisce l’interpretazione “autentica” di certe sue esternazioni, non peritandosi neppure di correggere il Vangelo!

 

Ora prenderemo in esame l’opera di due tra le più famose mistiche che hanno largito dovizia di particolari sulla vita della Vergine, le stesse da cui abbiamo tratto gli esempi sin qui citati: la venerabile suor Maria di Gesù d’Ágreda, del XVII secolo, e Maria Valtorta, del secolo scorso.

Quello che ci interessa è mostrare come si comporta la Chiesa di fronte a contenuti di cui qui cerchiamo di dare almeno un’idea.

 

 

La “Mistica Città di Dio” della venerabile Ágreda

 

Ecco alcune chicche mariologiche pescate tra le centinaia o migliaia di cui si compone l’amplissima autobiografia rivelata dalla Vergine alla mistica spagnola.

 

Dio assegna a Maria al momento della nascita una scorta di 1000 (dicesi mille) angeli, incaricati di conversare con lei, consolarla, proteggerla (§ 201-202). Ma oltre a questi “Maria aveva ai suoi cenni molti altri angeli” (§ 360).

Per il viaggio a Betlemme, poi, ai soliti 1000 se ne unirono altri 9000 (novemila!). “I 10000 angeli li accompagnavano in forma umana, visibili a Maria”.

Come se non bastasse, ve n’erano “molti altri” che “scendevano e salivano inviati dall’Eterno Padre […] colle ambasciate per cui erano stati spediti” (973).

 

Ciononostante, il viaggio fu penoso, con i due sposi costretti, quando nevicava, a dormire nelle stalle. “Maria avrebbe potuto comandare ai venti e alle nevi [sic] ma non lo faceva per non privarsi della imitazione del SS. Figlio nel patire” (978). (Si noti che Gesù un simile corteggio di angeli verosimilmente non l'ha mai avuto. Nel deserto non si dice quanti ve ne fossero a servirlo, ma nel Getsemani a consolarlo ne arriva solo uno.)

 

Sempre alla nascita, Dio ordina agli angeli di intrattenere Maria sui misteri dell’Incarnazione per accenderne il desiderio e provocarne le preghiere, senza però rivelarle, si badi bene, “la sua dignità di futura Madre del Messia”.

All’età di 18 mesi (!), quando la piccola ancora non parla, Dio le annunzia in visione l’imminenza del mistero della Redenzione, e Maria lo supplica di affrettarne il compimento: “Perché mai, o amato mio Signore, differite tanto la salvezza dei vostri figli che da tanto tempo l’aspettano? Se la mia vita vale qualcosa, ve l’offro, pronta a sacrificarla per essi” (388).

A questo punto Dio le permette di cominciare a parlare, ma Maria esprime il suo timore di dire, parlando, qualcosa che offenda Dio, e chiede la sua assistenza.

Sant’ Anna sa quale sarà il ruolo della figlia ma non glielo rivela, benché “spesso parlassero della Madre del Messia e Maria dicesse di lei cose sublimi” (397).

 

Nessuna meraviglia quindi se appena sposata, “portata di nuovo in corpo ed anima in cielo”, riceve da Dio la promessa “di concederle tutto ciò che gli domanderà, anche parte del suo regno”, e Maria gli chiede di procedere all’Incarnazione: “Chiedo che per la vostra immensa pietà ci inviate il vostro Unigenito e Redentore nostro, per placare la Vostra giustizia e dare pace agli uomini in terra e aprire loro l’ingresso in cielo. […] Giunga ormai il giorno delle vostre promesse e venga il Messia da tanti secoli desiderato” (829, 832). (Si deve naturalmente intendere che dicendo questo Maria è lontanissima dal pensare che, guarda caso, toccherà proprio a lei ospitare in grembo il Verbo incarnato!) 

 

Comunque sia, l’Incarnazione avviene in accoglimento delle sue suppliche. Dio infatti, che aveva ispirato a Maria tale preghiera, risponde: “Gradite mi sono le tue preghiere e accette le tue petizioni: sia perciò fatto ciò che domandi. Io voglio quel che tu desideri e in fede ti do la mia parola che prestissimo scenderà il mio Unigenito a vestirsi dell’umana natura” (833).

 

Subito dopo il suo ‘fiat’ Maria ha una visione beatifica in cui conosce con chiarezza il mistero dell’Unione ipostatica nonché tutti i misteri della vita di Cristo e della Chiesa, e si vede degna del titolo di ‘Madre di Dio’ (862).

“Gesù forma in Maria il modello di tutte le virtù”, tanto che “essa era veramente un altro Cristo” (sic, 1139). Pertanto ebbe piena e perfetta conoscenza di tutto quanto riguarda i Comandamenti e i Sacramenti, della Storia della Chiesa “dal principio del mondo sino alla fine del tempo e per tutta l’eternità”, nonché delle eresie che sarebbero sorte; in particolare, conobbe più profondamente dei Serafini tutti i misteri dell’eucarestia.

In pratica, come si vede, Maria riuniva in sé il teologo, il biblista, lo storico della Chiesa, il liturgista … Era una vera enciclopedia cattolica ambulante, incorporante in sé il Catechismo della Chiesa Cattolica, il Denzinger, gli Acta apostolicae sedis, il Martirologio … Altro che il faticoso “pellegrinaggio della fede” di cui ci parla la “Redemptoris Mater”!

 

Quanto alla condizione fisica, Maria godette in vita delle quattro proprietà che secondo i padri tridentini caratterizzano i corpi dei beati: chiarezza (luminosità), impassibilità (immunità dalla sofferenza; tra l’altro, fu esente da malattie), sottigliezza (“che libera il corpo dall’impenetrabilità”) e agilità (“per cui il corpo si trasporta in ogni istante dove vuole l’anima”).

Senonché la Vergine non volle valersi se non eccezionalmente di questi straordinari privilegi, “per maggior sofferenza e merito”; per assomigliare a Gesù Cristo “si volle assoggettare ai fenomeni naturali (fame, sete, stanchezza, caldo, freddo, ecc.)”.

Quanto alla luminosità, provvedeva Dio stesso a velarla, altrimenti “avrebbe illuminato il mondo come un sole” (867). Una sorta di doppio miracolo dunque, come nell’eucarestia.

 

Fin dalla nascita di Gesù, a Maria viene concessa una nuova specie di sonno, “per cui non solo può usare dell’intelligenza come prima, ma anche dei sensi, in modo da non lasciar mancare nulla al piccolo Gesù”. Pensa dunque e percepisce tutto anche mentre dorme! Chissà se Gesù ebbe un privilegio così … sofisticato.

Sempre a partire dalla nascita di Gesù, a Maria è dato di conoscere tutti i moti interiori dell’anima del figlio (989).

La divina madre poi guarisce indemoniati, avendo potere sui demoni; fa molti miracoli, comanda al vento e al mare (906, 1595, 1247, 1587).

Nel giorno del Giudizio, “essa sarà, con Cristo, giudice degli increduli” (!).

 

All’Ascensione del figlio, ci vien detto che Maria lo seguì (“in corpo ed anima, per bilocazione”, spiega il compilatore), e rimase in cielo “tre giorni, con perfetto uso delle potenze e dei sensi” (1461), mentre “restò nel Cenacolo con minore esercizio di essi” (una sorta di zombi?).

Sicché l’Assunzione non fu che un remake, un déjà vu. E per di più visto già diverse volte, poiché anche durante il Concilio di Gerusalemme, a cui Pietro volle che partecipasse, “fu trasportata anima e corpo in Cielo, e un angelo prese il suo posto” (1594); e prima ancora ciò era accaduto appena dopo la nascita (330) e poi per ben due volte nell’imminenza dell’Annunciazione (829, 837). Una sorta di abbonamento vitalizio per andata e ritorno dal cielo con anima e corpo.

Tra gli altri viaggi prodigiosi di Maria: venne trasportata da una nuvola in Spagna giusto in tempo per salvare san Giacomo dalla decollazione.

 

Inutile dire che, dopo la morte di Gesù, Maria ha un ruolo addirittura straripante nell’organizzazione della Chiesa primitiva, in vista della quale la Trinità l’ha appunto pregata di tornare sulla Terra.

Eccola dunque predicare e convertire. E fu lei che chiese e ottenne da Dio la conversione di san Paolo (1534); il quale poi, ci informa l’Ágreda, le mostrò una specialissima devozione (trascurando sfortunatamente, diciamo noi, di lasciarne la benché minima traccia nei suoi scritti).

Fu ancora Maria a chiedere a Dio di provvedere alla redazione dei Vangeli (1616); Dio l’incaricò di presiedere all’operazione, e la Vergine si rivolse a san Pietro che nominò i quattro evangelisti: “Così da Maria dobbiamo riconoscere anche il beneficio dei santi Evangeli” (1620).

 

Al momento del trapasso avvennero miracoli non meno straordinari di quelli avvenuti alla morte di Cristo: mentre il sole si eclissava, “molte persone si convertirono e molti ammalati guarirono. Furono liberate tutte le anime del Purgatorio” (1659).

L’anima di Maria salì al cielo per poi ridiscendere al sepolcro accompagnata da Gesù e “gran corteo di Angeli, Patriarchi e Profeti”. Riunitasi al corpo, tornò definitivamente in cielo per la solenne incoronazione, lasciando nella tomba la tunica e i lini (1668).

 

Centinaia e centinaia di altre informazioni fornisce l’Ágreda sulla vita di Maria. Alcune rasentano francamente l’amenità e possono fare del libro della Venerabile una lettura quasi divertente.

Tali ad esempio i frequenti accenni alle sante contese tra i due sposi, ciascuno dei quali vuole assolutamente servire l’altro e umiliarsi di fronte a lui, nonché la straordinaria propensione di Maria a prosternarsi ai piedi di Gesù, a umiliarsi fino “al di sotto della polvere” (1106). Preparava i pannolini stando in ginocchio e piangendo, e pure in ginocchio serviva il cibo a Gesù.

 

Curiosa in particolare quella specie di caccia al tesoro con cui Maria ritrova il pargolo dileguatosi a Gerusalemme: gli angeli del suo corteggio ovviamente sanno dov’è ma non glielo dicono, limitandosi a indicarle la distanza del fanciullo dai luoghi in cui la madre si propone di cercarlo.

Quando vuole andare nel deserto le dicono che lì non c’è: acqua; appena pensa di recarsi a Betlemme le rivelano che siamo già più vicini: fuoco; e quando infine decide di recarsi nel tempio l’avvertono che sì, adesso ci siamo proprio.

 

Inutile domandarsi come potesse avere simili problemi colei che, abbiamo visto, conosceva tutti i moti interiori dell’animo di Gesù.

Inutile domandarsi anche come mai la Madonna nel fornire i suoi dati biografici all’Ágreda abbia fatto una gaffe, indicando la durata del suo matrimonio con Giuseppe una volta in 27 anni (§ 1180, alla morte di lui) e una volta in 31 (§ 1658, alla morte di lei).

Inutile domandarsi come mai la data della propria nascita fornita da Maria sia quella tradizionale dell’8 settembre mentre la stessa Madonna a Medjugorje ha detto di essere nata il 5 agosto, festa della dedicazione di S. Maria Maggiore. E così via.

 

Ma è tutt’altro che inutile domandarsi almeno due cose: di quale considerazione ha goduto nei secoli scorsi la “vita” dell’Ágreda, e di quale gode oggi?

 

Si era cominciato bene. Appena uscita la prima edizione (1670), “che ebbe una diffusione incredibile”, “l’opera venne denunziata al S. Uffizio a Roma come pericolosa per la fede”, e nel giugno 1681, sotto papa Innocenzo XI, “venne proibita” (p. 7).

Dunque, per dirla col Manzoni, il buon senso c’era. Ma ahimè, venne subito soffocato dalla ragion politica (il re di Spagna chiese la sospensione del decreto, e il papa si piegò sollecitamente), dal consenso entusiastico dei fedeli e infine persino dai pareri favorevoli dei teologi e di alcuni papi. Così, il successo popolare fu suggellato da una sorta di riconoscimento ufficioso.

 

E oggi? Stefano De Fiores nelle 1500 pagine del suo “Nuovo dizionario di Mariologia” non dedica, non diciamo una voce, ma neppure un fuggevole accenno, né all’opera dell’Ágreda né alle altre consimili: le “Vite di Maria” vengono totalmente ignorate.

E nel suo manuale di mariologia “La madre di Gesù”, l’opera della Venerabile viene solo ricordata, insieme a quella della Valtorta, in una nota in calce di due righe con la seguente presentazione: “Il genere narrativo degli apocrifi ritornerà in opere popolari famose, benché controverse” (p. 110).

È chiaro dunque che per l’illustre mariologo si tratta di ciarpame teologico, non degno della minima considerazione. E dello stesso parere dà l’impressione di essere il mariologo di Radio Maria, A. M. Tentori.

 

Già. Ma ancora mezzo secolo fa l’autorevolissimo Roschini faceva proprio il seguente giudizio di J. Van den Geyn: “Dal punto di vista della teologia mistica e dell’edificazione, la ‘Mistica città di Dio’ merita la voga che ha avuto”.

Dal canto suo, padre Livio ha riproposto a Radio Maria l’opera dell’Ágreda, pur definendola occasionalmente “un po’ datata”.

Ma soprattutto v’è da segnalare che, come già abbiamo accennato, la Pontificia Accademia Mariana Internazionale, che ha sede nella Città del Vaticano, ha curato negli anni 2000-2002 una nuova edizione integrale, splendida nella veste tipografica, della monumentale biografia mariana: come dire che l’opera, anche in ambienti assai autorevoli, viene considerata tuttora attuale e importante.

 

E nella corposa “Introduzione” non mancano ovviamente gli elogi. In particolare, si combattono le accuse di scorrettezza teologica.

Ad esempio, per giustificare le continue assunzioni al cielo di Maria, che sembrano mettere in ombra l’unica Ascensione di Cristo, si fa notare che in Maria tutto avvenne in virtù dei meriti di Cristo stesso, o comunque in vista di tali meriti futuri; e che si trattò di assunzioni temporanee, a parte l’ultima; mentre Gesù ascese al cielo per virtù propria e in via definitiva.

 

Unica preoccupazione è dunque il teologicamente corretto; cosa facile da dimostrare, una volta assunti come punti di partenza (esattamente come ha fatto l’autrice) il “De Maria numquam satis” e la funzione corredentiva di Maria (pur in assenza di una definizione magisteriale esplicita): qualsiasi privilegio può sempre venir presentato come riflesso e conseguenza della santità di Cristo e trovare una giustificazione nel ruolo di corredentrice della Vergine.

In pratica, per mantenersi nell’ortodossia basta evitare di dire che in principio Maria creò il cielo e la terra, e ricordarsi di ripetere di tanto in tanto che la Vergine non è che una semplice creatura.

 

Tutto questo a scopo di edificazione, si dice. Così, la mala pianta dell’edificazione soffoca ogni aspirazione alla verità: nessuno pare chiedersi mai se quanto viene raccontato ha qualche probabilità di essere vero.

La verità, che dovrebbe essere il primo valore da difendere, è la cenerentola in simili operazioni devote.

 

Ma non è solo la verità che ci scapita: ci scapita anche l’immagine di Maria. La figura della Vergine che scaturisce da quest’opera è sostanzialmente caricaturale.

 

Basta vedere come si comporta la protagonista di fronte alla prospettiva della maternità divina. Non pensa minimamente di chiedersi per quale motivo lei, e solo lei, abbia il singolarissimo superprivilegio di venire portata in cielo a ripetizione con anima e corpo, e ammessa a parlare con Dio, sin dall’età di diciotto mesi, quando ancora non parlava “umanamente”.

E quando le “assunzioni” si succedono rapidamente, nell’imminenza dell’Annunciazione; quando la fanciulla “vede in Dio tutte le cose create e molte di quelle future e possibili” (“ciò che per l’universo si squaderna”, nella visione dantesca); quando si sente dire da Dio parole come “Tu sei esente dal peccato”, “Sposa mia [!], perfettissima colomba e amica mia”, “ti costituisco Signora di tutti i miei beni e te ne do completo dominio, acciocché tu possa dispensarli a chi per tua mano o intercessione me li chiederà”; quando viene consacrata “suprema regina di ogni cosa creata”; quando accadono cose di tal genere e con tutto ciò leggiamo che, per un prodigio di umiltà, “non veniva in mente a questa signora di poter essere la madre del Messia” (!); non possiamo non concludere che, se era stata ricolmata di privilegi incredibili, Maria era però stata deprivata di un umanissimo normale quoziente d’intelligenza.

 

È assurdo esaltare virtù come l’umiltà quando si delinea un contesto psicologico in cui la normalità dei processi interiori è completamente stravolta. Se di Cristo si dice che fu in tutto vero uomo tranne che nel peccato, della Vergine descritta dall’Ágreda dovremo dire che fu in tutto vera donna tranne che nel peccato e in qualche dozzina di altre qualità.

 

Da notare poi che non risulta chiaro che cosa avrebbe fatto Dio per gli uomini se non vi fosse stata la Vergine, dato che quasi tutte le iniziative divine (abbiamo citato la redenzione e la redazione dei Vangeli) ci vengono presentate come suggerite o quanto meno impetrate da Maria: gli uomini le devono a lei.

 

Resta da aggiungere un particolare non secondario. Suor Maria de Ágreda risulta aver contribuito efficacemente all’evangelizzazione di alcune tribù indiane del Nuovo Messico e di altre regioni confinanti, alle quali sarebbe ripetutamente apparsa per bilocazione, senza abbandonare la Castiglia. La circostanza clamorosa venne confermata dall’Inquisizione spagnola, dopo una lunga indagine.

Ci troviamo quindi di fronte a una situazione non rara nelle vicende che hanno per protagonisti la Vergine e i destinatari delle sue apparizioni o locuzioni interiori: abbiamo da un lato straordinarie manifestazioni paranormali e dall’altro messaggi celesti discutibilissimi, per non dire banali, grotteschi, spesso decisamente inaccettabili.

È una sorta di schizofrenia destinata a raggiungere dimensioni iperboliche nel caso di Medjugorje.

 

 

“Il Vangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

 

A proposito di quest’opera il già citato Roschini (“La Madonna negli scritti di Maria Valtorta”) parla, in termini entusiastici, di “una mariologia ‘nuova’ che illumina e integra la vecchia Mariologia, quella tradizionale”.

Quest’ultima non è nient’altro che la mariologia … evangelica, che l’opera della Valtorta, dice il Roschini, “restaura e completa” (s’intende in termini di dati biografici, giacché sotto il profilo teologico sappiamo che lo sviluppo è già stato ipertrofico).

Infatti, “il  motivo di questo restauro della figura di Maria va ricercato nelle evidenti lacune [sic] che riscontriamo, nei libri canonici, riguardo a Maria SS” (p. 28).

 

Il mariologo riporta le parole che la Valtorta asserisce esserle state dette da Gesù stesso: “Io ero nei Vangeli già sufficientemente descritto. […] Maria SS. era poco nota; la sua figura era appena disegnata con linee incomplete che troppo di Lei lasciano in ombra. Ecco: Io l’ho svelata. Ed Io te l’ho data questa perfetta storia di mia madre …”.

Gesù medesimo, dunque, provvede finalmente a colmare le deplorevoli “lacune” dei Vangeli, rivelando a Maria Valtorta, a sua volta incaricata di rivelarli al mondo, una quantità di particolari edificanti sulla sua vita e soprattutto su quella di sua madre.

 

Superfluo dire che in tali condizioni la veggente, confortata da un’ispirazione non inferiore a quella degli scrittori sacri (Cristo val bene lo Spirito Santo), diviene di fatto autrice terrena di un quinto supervangelo che, almeno per quanto riguarda la figura di Maria, fa impallidire gli altri quattro messi insieme. Sicché il ruolo della Valtorta nella Storia della salvezza diviene di importanza capitale, proprio come nel caso dell’Ágreda.

Che tale autoesaltazione sia implicitamente compiuta dalla scrittrice e tacitamente accettata dalle miriadi di lettori assetati di biografia mariana, passi. Che però un’operazione del genere ottenga il placet del grande mariologo lascia interdetti.

 

Ma Roschini fa ancora di più. Non contento di definire “nuova” la mariologia della Valtorta, la qualifica come “viva”, in quanto ci mostra ad ogni passo la Vergine operante nella vita quotidiana. E alla luce di tale qualifica vediamo spiegati i cosiddetti passi “antimariani” dei Vangeli. Qui ci soffermiamo solo sul chiarimento fornito da Gesù stesso (!) circa la famosa frase “Donna, che vi è tra me e te?” di Gv 2, 4.

“Nel testo riportato dalla Valtorta”, scrive Roschini, “si legge: ‘Donna, che vi è più tra me e te?’ Vi è, in più, l’avverbio "più"” (p. 33).

Ecco infatti il commento di Gesù nel testo valtortiano: “Quel più, che molti traduttori omettono [sic], è la chiave della frase e la spiega nel suo vero significato. […] ‘Che vi è più tra te e me?’ prima ero tuo, interamente tuo. Tu mi comandavi, Io ti ubbidivo. Ti ero soggetto. Ora sono della mia missione. […] Quel più, dimenticato dai più [sic], voleva dire questo …” (corsivi nel testo).

 

Gesù dunque dice di aver proferito una frase diversa da quella che figura nel quarto Vangelo: lui aveva detto una parola in più (proprio l’avverbio “più”), che rende tutta la frase, e con essa l’episodio intero, chiari e per nulla imbarazzanti, rendendo superflui i contorcimenti dell’esegesi ortodossa. La colpa, dice Gesù, è dei “molti traduttori”, o addirittura dei “più” (non meglio specificati: filologi, traduttori, editori?), che “omettono” l’avverbio incriminato.

Qui, se la veggente non ha preso un abbaglio colossale, siamo di fronte a un momento di annebbiamento di Gesù stesso; perché in primo luogo l’ “omissione” non è dei molti o dei più, bensì di tutti i biblisti; e non di omissione si tratta, bensì di resa fedele dell’originale greco, in cui il famigerato “più” non figura affatto.

 

Gesù dovrebbe dare un’occhiatina ai codici, e si accorgerebbe che la sua “lezione”, ossia la variante testuale che egli caldeggia, è inventata di sana pianta.

Il che è assai grave, poiché dimostra o che le sue parole sono state riportate inesattamente dall’evangelista o che Lui stesso non ricorda più bene quel che ha detto.

Ma tale paradossale conclusione non sconcerta minimamente il mariologo, che trionfalmente si chiede che cosa mai vi sia di antimariano nei passi controversi, uno dei quali è appunto quello or ora visto: “debitamente interpretati [leggi: letteralmente stravolti] essi sono un autentico inno di lode a Maria”.

 

Qui siamo alla vera e propria disonestà intellettuale. La mariologia finisce per ricorrere a quei mezzucci di cui (come ci assicura don Lorenzo Minuti, ogni primo mercoledì del mese a Radio Maria) si avvalgono i Testimoni di Geova. I quali, si afferma, quando un passo biblico non quadra con le loro tesi, non esitano ad alterarlo.

Certo, Roschini non è il Magistero. Ma possiede un’autorevolezza che rende la sua presa di posizione assai significativa; esemplare, direi, dell’atteggiamento ambiguo della Chiesa in simili circostanze.

 

La vicenda della Valtorta infatti richiama da vicino quella dell’Ágreda. La sua opera venne dapprima messa all’Indice (fu l’ultima ad avere tale onore!), il che inoppugnabilmente significa che dopo attentissimo esame ai massimi livelli fu giudicata pericolosa per l’igiene spirituale dei fedeli.

Anche qui, dunque, dobbiamo ripeterci, “il buon senso c’era”. Ma anche qui fu travolto dal malsano desiderio di capitalizzare a scopo di “edificazione” tutto quanto può apparire utile, senza tanto guardare per il sottile: quando lo scopo è solo quello di ottenere un’eleganza appariscente, non si bada se si tratti di diamanti o di strass.

 

Ecco allora che un papa (Pio XII) dice che la Valtorta “si può leggere”; un cardinale (Bea), teste padre Livio, la difende a spada tratta; un mariologo come Roschini si entusiasma alla sua fraudolenta esegesi evangelica; il direttore di Radio Maria non perde occasione per dichiarare di aver tratto grandi benefici dai suoi libri; e la Madonna di Medjugorje riconferma il nulla osta alla lettura.

Serve a poco allora che l’editore venga costretto a premettere ai suoi libri che si tratta di parola di Maria Valtorta, e non di Gesù o della Madonna. Tutto si riduce a una sorta di formalità priva di qualsiasi efficacia, che ricorda le puntigliose didascalie di film e romanzi con cui si avverte che ogni riferimento a persone e fatti reali è puramente accidentale: una moltitudine di lettori nel mondo s’innamorano di quel Gesù e di quella Madonna (oltre che della Valtorta, naturalmente).

 

Vorrei ancora sottolineare che la sentenza attribuita alla Madonna di Medjugorje secondo cui la Valtorta “si può leggere” è oltremodo ipocrita. Quello che il lettore vorrebbe sapere non è se simili racconti possono nuocere alla sua ortodossia (questo semmai preoccuperà in primis la Chiesa), ma se i loro contenuti sono veri; ma la Madonna su questo punto osserva un nobile silenzio.

 

La verità, come abbiamo visto, è l’ultima cosa di cui ci si cura. Tanto che padre Livio arriva ad esaltare la Valtorta per avere eretto con la sua opera una barriera contro l’incredulità dilagante a metà del secolo, quando si arrivava a mettere in dubbio la storicità stessa di Gesù; una barriera che però, diciamo noi, se i fatti riferiti non sono veri è in realtà una barriera di bugie.

Allo scetticismo originato dall’obiettivamente scarsa evidenza storica di Gesù si sarebbe dunque fatto argine con una biografia romanzata, in cui l’invenzione ha un ruolo preponderante, spacciandola (e non per vezzo letterario, come nelle finzioni del “manoscritto ritrovato”) per una rivelazione autentica di provenienza celeste.

Sotto il profilo dell’onestà si deve ammettere che il rimedio è peggiore del male.

 

Lo stesso padre Livio, in una ”Catechesi giovanile” (3 maggio 2003), dopo aver ricordato che la Chiesa raccomanda di considerare le opere della Valtorta “parola di Maria Valtorta” anziché parola di Dio, citando una predizione della veggente tratta da un’opera su cui, precisa ambiguamente, la Chiesa non si è pronunciata, commenta: “La Valtorta dice che queste parole le furono dettate da Gesù, ed io le credo” (sic).

E allora ci risiamo: se quelle parole le ha dettate Gesù sono parola di Gesù (e quindi di Dio), non di Maria Valtorta. L’autore è chi detta, non chi trascrive. Dunque, se padre Livio le considera parole di Gesù, si pone contro la Chiesa.

Inguaribile incapacità di fare una scelta coerente: è tutto un eterno giocare su due tavoli.

 

Il cattolicesimo, si dice orgogliosamente, ha come propria caratteristica la capacità di conciliare gli opposti, secondo la legge dell’et-et: fede e opere, ragione e fede, misericordia e giustizia, grazia e merito, Dio uno e trino, Gesù vero Dio e vero uomo, ecc. Ma spesso nella sua prassi la Chiesa, si perdoni la franchezza, vi aggiunge di suo la coppia “capra e cavoli”.

Quando Gesù diceva “Il vostro parlare sia sì sì, no no”, intendeva dire “dite di sì oppure di no”, a seconda dei casi. La Chiesa invece, quando le torna comodo, applica anche qui la meravigliosa legge dell’et-et, e dice sì e no al tempo stesso: dice ni.

Di fronte ad opere di cui quella dell’Ágreda e della Valtorta sono tra gli esempi più cospicui, dice ni per salvare la capra dei “frutti di edificazione”, dell’eccitamento della pietà popolare, e i cavoli dell’intangibilità del patrimonio dottrinale minacciato da questo diluvio di rivelazioni mirabolanti.

 

Non ha insomma il coraggio di dire chiaramente, una volta per tutte, che simili opere sono romanzi biografico-biblici, sono frutto di creazione personale dell’autore, quali che siano la natura e le cause della condizione psichica che le hanno originate. E non ha il coraggio di fare quel che pure fa con gli apocrifi (soprattutto neotestamentari), la cui lettura da parte dei semplici fedeli, lungi dall’essere incoraggiata, viene di fatto sconsigliata.

Eppure gli apocrifi in qualche caso possono conservare l’eco di tradizioni risalenti all’età apostolica, mentre per le moderne biografie romanzate di Gesù e di Maria tale radicamento storico è escluso.

Il fatto è che, mentre gli apocrifi contengono molti dati contrastanti con la dottrina sviluppatasi in seguito, i moderni romanzi biblici, come abbiamo visto, partono proprio dal deposito attuale della fede, che si limitano a trasporre in fiction.

Sono quindi assai meno pericolosi.

 

Se ci siamo dilungati sulle “vite” di Maria (e di Gesù) “rivelate” dai protagonisti stessi, è in primo luogo perché ci sembrano una cartina di tornasole dell’atteggiamento della Chiesa di fronte a quel supposto “soprannaturale” che da un lato attira e dall’altro spaventa; quel “soprannaturale” che nelle apparizioni ha ovviamente la sua manifestazione più vistosa, più seducente e più inquietante.

 Il problema è in fondo il medesimo: si tratta di decidere se all’origine dei fenomeni sta veramente un’iniziativa del Cielo che tramite alcune anime investite di particolari carismi vuole comunicare qualcosa all’umanità intera.

E abbiamo visto che, nonostante l’enormità di tante asserzioni contenute nelle opere delle autrici, la Chiesa (in tutte le sue articolazioni: Magistero, editoria accademica, istituzioni come Radio Maria, mariologi di grido, ecc.) è quanto mai restia, per timore dell’impopolarità, a sconsigliare decisamente tali letture ai fedeli.

 

In secondo luogo, ci siamo soffermati su Ágreda e Valtorta perché anche a Medjugorje è in cantiere - anzi, è già pronta, custodita sotto chiave da Vicka - una “vita di Maria” che occupa “tre corposi quaderni” (e che già ha fatto venire l’acquolina in bocca a padre Livio).

 

 

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