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controapologetica
 
Tuesday, 03 December 2024
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                   La teologia di Ratisbona 

 

Il primo, capitale addebito che si può muovere a Benedetto XVI, per quanto riguarda il piano teologico del suo discorso, è quello di aver accusato l’islam di errori e manchevolezze dottrinali che si ritrovano, in misura addirittura più accentuata, nel cattolicesimo.

Il pontefice infatti non può fingere di ignorare che, posto che il non agire secondo ragione non sia degno di Dio, questa è un’ accusa da cui proprio il Dio cristiano deve innumerevoli volte venire scagionato dall’apologetica con raffinati strumenti teologici.
 
1) Lo strumento più comunemente impiegato è il ricorso al mistero. Quando l’operato divino appare assolutamente irrazionale (ossia, in pratica, indifendibile), si invoca il mistero. I termini mistero/-i, l’aggettivo misterioso con le forme del femminile e del plurale, nonché l’avverbio misteriosamente scandiscono il Catechismo della Chiesa cattolica a salvaguardia del buon nome dell’Onnipotente. Misteriose sono ad esempio la trasmissione “per propagazione” del peccato originale e la “divina permissione del male”. 
In alternativa al termine “mistero”, l’apologetica a tutti i livelli parla di “imperscrutabilità” del volere (ovvero dell’agire) divino. Una splendida espressione di tale concetto ce la offre Dante, quando viene invitato ad arrendersi di fronte all’incomprensibilità del progetto e della giustizia divini a proposito dei criteri di salvazione delle anime:
 
or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna,
per giudicar di lungi mille miglia
con la veduta corta d’una spanna?   (Pd XIX, 79-81)
 
Accanto alla formula dell’imperscrutabilità ha molto successo presso l’apologetica il ricorso a un versetto di Isaia, in cui Dio dice:
“… i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie ...” (Is 55, 8). Di qui le formule frequenti “Le vie del Signore non sono le nostre vie, i pensieri del Signore non sono i nostri pensieri”, a cui di tanto in tanto si aggiunge “i tempi del Signore non sono i nostri tempi” o qualche variante del genere.
 
Altra giustificazione largamente impiegata è l’aurea massima secondo cui “Dio sa trarre il bene dal male”. Senza contare poi la formula ancor più generica che vorrebbe rassicurarci ricordandoci che “Dio ci sorprende sempre”.
 
Tutte queste strategie di giustificazione di un Dio il cui operato risulta tanto spesso incomprensibile, e quindi ingiustificabile, non sono che variazioni sul tema del mistero. Non possiamo qui indugiare a mettere a fuoco la natura concettuale di questa vera e propria istituzione della teologia cristiana; ma dobbiamo almeno fare giustizia di formule correnti e superficali secondo cui “il mistero non è contrario alla ragione, ma la supera”.
In effetti, tra mistero e ragione vi è un rapporto di estraneità, in quanto il mistero non soddisfa le condizioni poste dalla ragione come necessarie per l’accesso alla verità; e la ragione rifiuta di pronunciarsi sul valore di verità del mistero.
 
In pratica, nella teologia cristiano-cattolica, il mistero stesso non è che l’espressione della reciproca incompatibilità di due o più asserzioni fattuali appartenenti al deposito della fede.
Se ad esempio vogliamo affermare che la volontà di Dio si realizza sempre (perché così vuole l’onnipotenza che viene a lui attribuita come caratteristica primaria), e al tempo stesso affermare che Dio lascia l’uomo completamente libero di compiere le proprie scelte (per enfatizzare il rispetto del creatore per la sua creatura), la conciliazione delle due affermazioni inconciliabili può avvenire solo facendo ricorso all’ “arma assoluta” del mistero.
 
Ma allora è impossibile non chiedersi: perché non concedere il beneficio del mistero anche ad Allah?
 
2) Anche senza entrare nel merito di questioni teologiche di ordine “tecnico”, è comunque facile notare che vi sono nel bagaglio dottrinale del cattolicesimo una quantità di asserzioni, di origine biblica o magisteriale, che ben difficilmente possono venir considerate conformi alla “ragione” nel senso corrente del termine (come invece occorrerebbe perché si potesse legittimare l’accusa del Papa all’islam di “non agire secondo ragione”, in quanto ciò sarebbe “contrario alla natura di Dio”). Ad esempio:
 
Che ha a che vedere con la ragione il comportamento di un Dio che, pentitosi di aver creato gli uomini, decide di accopparli tutti d’un colpo (tranne otto)? E che poi promette di non farlo più solo per il fatto che la mostruosa ecatombe è destinata a suo giudizio a rimanere inefficace, data l’incorreggibile propensione dell’uomo a peccare? 
Che ha a vedere con la ragione la pretesa di un Dio che per concedere la beatitudine eterna richiede di venire addirittura masticato (Gv 6, 48 ss.) nella sua natura umana realmente presente nell’ostia?
Che ha a che vedere con la ragione il fatto che tutti gli uomini siano stati condannati per la colpa di uno solo, e poi tutti salvati per i meriti di uno solo? Condannati quindi tutti senza colpa e poi salvati senza merito?
 
E così via. Perché dunque non riflettere sul rapporto tra la ragione e la propria fede, prima di accusare altri di pensare e agire contro ragione?
 
3) Ma ancora più grave, per la valutazione dell’argomentazione di Benedetto XVI, è il fatto che quanto abbiamo ora detto semplicemente guidati dal più umile umano buon senso ha una sorta di codificazione formale all’interno della Scrittura stessa, in parole con cui la fede rivendica il diritto di conformarsi a una logica (e pertanto a una ragione) che è follia per il mondo (ed è quindi, per definizione, “irragionevole”).
La formulazione più nota di tale pretesa si ha nel passo paolino di 1Cor 1, 22-25, già da noi fuggevolmente ricordato nel precedente capitolo: 
 
“E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; […] Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.”
 
Ma anche i versetti che precedono contengono espressioni non meno esplicite:
 
La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti:
      Distruggerò la sapienza dei sapienti
      e annullerò l'intelligenza degli intelligenti
.
      Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione (vv. 18-21; corsivi, come al solito, nostri).
 
È chiaro che con queste premesse orgogliosamente sbandierate ci si ritiene autorizzati a sovvertire, all’occorrenza, le regole della logica per spiazzare i “sottili ragionatori” di questo mondo. E di simile diritto Paolo si avvale generosamente nelle sue argomentazioni.
 
Non indugiamo su questo punto perché abbiamo già dedicato un capitolo della monografia L’apologetica e i racconti pasquali al tema della “inaudita” logica cristiana che di quando in quando l’apologetica utilizza per far quadrare quel che usando la logica ordinaria dei comuni mortali non quadrerebbe assolutamente (v. Apologia del mistero, del paradosso, dello scandalo”).
Ma non possiamo non domandare a Benedetto XVI come mai non abbia tenuto conto di questa particolare caratteristica del cristianesimo quando ha così direttamente denunciato la “mancanza di ragione” nell’islam: un simile comportamento è contrario alla saggezza mondana, che ci ricorda il “Medice, cura te ipsum”, e più ancora a quella cristiana, che ammonisce di non denunciare la pagliuzza nell’occhio altrui senza aver prima provveduto a rimuovere la trave che si ha nel proprio.
 
4) La domanda è però forse superflua, in quanto destinata a venire riassorbita e “superata” da un'altra più pressante e drammatica, anche perché più strettamente legata allo specifico tema della violenza impiegata per motivi religiosi.
La nuova domanda è questa: Non ha pensato, il Papa, all’interminabile serie di eccidi e genocidi - volti a preservare la purezza della fede monoteistica - perentoriamente ordinati dal Dio cristiano quale ce lo presenta la Bibbia?
Si tratta di una sequenza di passi impressionante. Daremo solo qualche indicazione, ripromettendoci di sviluppare il tema in un’eventuale futura monografia dedicata alla “violenza di Dio nell’Antico Testamento”. 
Alcuni esempi tra i tanti possibili, in estrema sintesi:
 
a) nel libro di Giosuè ricorre almeno una decina di volte (otto nel solo cap. 10) una formula di questo genere, riferita a popoli diversi sconfitti da Israele:
“Il Signore mise anch'essa [la città di Libna] e il suo re in potere di Israele, che la passò a fil di spada con ogni essere vivente che era in essa; non vi lasciò alcun superstite” (Gs 10, 30”).
Nel primo caso, quello di Gerico, si ha una precisazione, a beneficio degli increduli:
“Votarono poi allo sterminio, passando a fil di spada, ogni essere che era nella città, dall'uomo alla donna, dal giovane al vecchio, e perfino il bue, l'ariete e l'asino” (Gs 6, 21).
 
E nella presentazione riassuntiva di questa fase delle operazioni non manca un’altra precisazione inequivocabile, che ricorre peraltro un po’ ovunque nella storia della conquista della Palestina:
“Giosuè […] non lasciò alcun superstite e votò allo sterminio ogni essere che respira, come aveva comandato il Signore, Dio di Israele” (Gs 10, 40).
Del resto, la regìa divina fa anche di più:
 “Era per disegno del Signore che il loro cuore si ostinasse nella guerra contro Israele, per votarli allo sterminio, senza che trovassero grazia, e per annientarli, come aveva comandato il Signore a Mosè”(Gs 11, 20).
 
b) per cambiare tipo di situazione, possiamo ricordare il comportamento del profeta Elia (uomo di Dio nel senso più pieno del termine), il quale, dopo aver sconfitto i 450 profeti di Baal in una sfida a chi meglio riusciva a dimostrare di godere dell’assistenza divina, se li fa portare al torrente Kison, dove li sgozza tutti.
 
c) Per finire, facciamo l’esempio di un intervento diretto di Dio per reprimere l’offesa alla sua maestà:
                                “Samaria espierà,
                                       perché si è ribellata al suo Dio.
                                       Periranno di spada,
                                      
saranno sfracellati i bambini;
                                       le donne incinte sventrate
” (Am 14, 1)
 
E così via, in innumerevoli altri passi (v. ad es. Dt 7,2 ss. e 13,7-12).
 
Che dire di questo impressionante catologo di brutalità di parola e di linguaggio?
Sappiamo che l’apologetica cerca di ridimensionare il più possibile l’AT, in quanto compiuto e superato dall’annuncio evangelico; ma qui non è in gioco una legge da osservare, bensì l’immagine che Dio dà di sé, la quale non può essere oggetto di alcun “superamento”.
Sta di fatto comunque che in questi passi la distanza che separa le due immagini di Dio – il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe da un lato e il Dio di Gesù Cristo dall’altro – è veramente abissale.
 
Concediamo che la violenza del Dio ebraico è volta al mantenimento dell’ortodossia in Israele, mentre l’islamismo mira ad espandersi; e concediamo pure che la “ragione” di Dio che è qui in gioco è in realtà “ragionevolezza”, come dimostreremo nel capitolo seguente, dove approfondiremo il tema sotto il profilo filosofico.

Ma, al di là di ogni disquisizione, resta il fatto che, se Allah acconsentisse ad esibire un logos quale è quello di cui dà prova lo Yahweh biblico, Benedetto XVI sarebbe il primo ad esserne atterrito. 

 

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