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Tuesday, 03 December 2024
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                    La gaffe di Ratisbona

 

 

 

Il contenuto aggressivo della lectio

 

Che l’esternazione accademica del pontefice a Ratisbona, pur nella sua correttezza formale, sia stata una vera e propria dichiarazione di guerra all’islam ci pare indiscutibile. Non occorre essere patiti dell’ecumenismo per vedere quanto sia sconveniente che la suprema autorità di una gerarchia religiosa denunci personalmente ed esplicitamente, in forma ufficiale e solenne, le gravi manchevolezze che ritiene di scorgere in un’altra religione.

Queste sono denunce da affidare ai luogotenenti; in ogni caso, da compiere con la massima diplomazia possibile. Un minimo di sensibilità dovrebbe infatti suggerire che, se si vuole evitare una brusca rottura di rapporti (e il Papa certo non può permettersela, per mille motivi), l’attacco non deve mai essere portato direttamente al “credo” della confessione contro cui si polemizza, ma semmai alle sue interpretazioni o alla carente applicazione concreta da parte dei suoi seguaci.

Non Allah e Maometto si devono attaccare, dunque, ma gli integralisti che vanno tanto spesso al di là di quanto prescrive il Corano; e se nel Corano stesso càpita di reperire, su un determinato tema, affermazioni parzialmente contrastanti, occorre valorizzare quella più accettabile, come fondamento su cui eventualmente costruire qualcosa in comune. Benedetto XVI ha invece fatto precisamente l’opposto.

 

Concretamente, possiamo dire che egli ha urtato la sensibilità dei credenti musulmani in tre modi:  

 

1) denunciando l’incoerenza del Corano, che, mentre prescrive in una delle sure più antiche di non esercitare “costrizione nelle cose di fede”, dice tutt’altra cosa nelle “disposizioni, sviluppate successivamente […], circa la guerra santa” (per di più, si insinua che l’atteggiamento di rispetto della fede altrui sia dovuto unicamente ad un calcolo egoistico: la sura citata, dice infatti il Pontefice, “è una delle sure del periodo iniziale in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato”);

 

2) accusando il Profeta di aver portato, come novità, “soltanto delle cose cattive e disumane”;

 

3) denunciando, con le parole di Theodore Khoury, la concezione islamica di Dio, secondo la quale Allah, nella sua assoluta trascendenza, avrebbe una volontà completamente svincolata da tutte le nostre categorie, ivi compresa quella della ragionevolezza. E aggiungendo: “In questo contesto Khoury cita un'opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazm si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l'uomo dovrebbe praticare anche l'idolatria”.

Come dire che l’irragionevolezza è nel DNA di Allah.

 

Probabilmente il Papa ha pensato di potersi permettere tanta violenza polemica per il fatto che egli riferiva valutazioni altrui. Lo sferzante giudizio su Maometto è infatti dell’imperatore bizantino tardomedievale Manuele Paleologo, impegnato in un dialogo con un dotto persiano; e Khoury è l’editore e commentatore moderno del suddetto dialogo.

Si veda in particolare quanto abbiamo detto al punto 3: in sostanza, il Papa dice che Khoury dice che Arnaldez dice che Ibn Hazm dice … Dietro questo triplice paravento evidentemente egli si è sentito sicuro di poter lanciare il sasso nascondendo la mano.

Quanto poi al giudizio dell’imperatore su Maometto, indiscutibilmente tranchant, Ratzinger ha provveduto a corredarlo di una sua osservazione, precisando che il Paleologo si rivolge al suo interlocutore “in modo sorprendentemente brusco” (“in erstaunlich schroffer Form”).

 

 

Quando si è scatenata la reazione violenta del mondo musulmano, l’autore della lectio ha fatto una indecorosa marcia indietro. Già cinque giorni dopo, all’Angelus domenicale, proprio a proposito del giudizio su Maometto, con ineffabile candore  affermava, a mo’ di scusa:

“Sono vivamente rammaricato per le reazioni suscitate da un breve passo del mio discorso nell’Università di Ratisbona, ritenuto offensivo per la sensibilità dei credenti musulmani, mentre si trattava di una citazione di un testo medioevale che non esprime in nessun modo [sic!] il mio pensiero personale”.

Affermazione a dir poco stupefacente, poiché la frase dell’imperatore bizantino, secondo cui Maometto a ben guardare avrebbe apportato solo “cose cattive e disumane”, è il punto di partenza di tutta l’argomentazione papale, che senza di essa non ha più senso. Nel testo del discorso, la presunta “presa di distanza” riguarda solo il tono delle parole dell’imperatore, non il loro contenuto.

Il fatto che Ratzinger esprima la sua sorpresa per la mancanza di delicatezza del Paleologo non significa affatto che egli non condivida il suo giudizio sul Profeta, sicché la pretesa che la frase incriminata non esprima “in nessun modo” il suo “pensiero personale” è un capolavoro di ipocrisia. A meno che non si voglia dire che il Papa non conosce il significato delle parole che usa.

 

In altri termini: se Benedetto XVI cita la frase su Maometto, vuol dire che intende o utilizzarla nella sua argomentazione come premessa oppure negarla, usando come premessa la sua contraria. Ma se non la condividesse, dovrebbe dirlo apertamente e respingerla, perché tutto nel suo discorso - non solo la frase avulsa dal contesto, ma l’intero contesto argomentativo - dice esattamente il contrario a chiunque abbia un minimo di raziocinio e di onestà intellettuale.

In sostanza, la frase non figura affatto nel discorso come un corpo estraneo: il Papa e il Paleologo vogliono arrivare a dire esattamente la stessa cosa, ossia che l’uso della costrizione per diffondere la religione è contrario alla ragione, al lógos.

 

Resta da osservare che il giudizio su Maometto in se stesso è non solo brusco, ma inutilmente duro. Si potrebbe addirittura definirlo ingiusto, sommario, superficiale, perché suona come un bilancio negativo di tutta l’opera del Profeta, indiscriminatamente; era quindi quanto mai inopportuno assumerlo come punto di partenza per esaminare un aspetto particolare di tale opera.

Inoltre, sarebbe stato corretto accennare almeno alla risposta del dotto persiano: il preteso dialogo è in realtà un monologo, telegrafico e perentorio. Pessimo auspicio, davvero, per quel “dialogo franco e cordiale” che si proclama di voler instaurare.

 

Nessuno dubita che, a posteriori, il Pontefice, accortosi di avere sottovalutato l’impatto della sua affermazione, avrebbe preferito non averla mai fatta; ma chiedere di non tenerne conto non è lecito, a meno di sopprimere tutta una parte del discorso.

Sta di fatto che, nel tentativo di salvare il salvabile, nella versione stampata e annotata della lezione il Papa ha rincarato la dose dell’asserita presa di distanza, aggiungendo a “in modo sorprendentemente brusco” la precisazione “e per noi inaccettabilmente brusco”: quasi che lo scopo precipuo della sua menzione della frase che scotta fosse quello di bacchettare sulle dita l’imperatore per la sua mancanza di political correctness!

E per completare l’opera, ha aggiunto, in una delle note filologiche di cui ha corredato il testo stampato:

“Questa citazione, nel mondo musulmano, è stata presa purtroppo come espressione della mia posizione personale, suscitando così una comprensibile indignazione. Spero che il lettore del mio testo possa capire immediatamente che questa frase non esprime la mia valutazione personale di fronte al Corano, verso il quale ho il rispetto che è dovuto al libro sacro di una grande religione. Citando il testo dell'imperatore Manuele II intendevo unicamente evidenziare il rapporto essenziale tra fede e ragione. In questo punto sono d'accordo con Manuele II, senza però far mia la sua polemica.”

E in un’altra nota torna a battere sul chiodo:

“Solamente per questa affermazione ["non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio"] ho citato il dialogo tra Manuele e il suo interlocutore persiano. È in quest'affermazione che emerge il tema delle mie successive riflessioni”.

 

Parole al vento, ovviamente, perché se davvero l’intento fosse stato solo questo era del tutto inutile – e quindi ingenuo e sconsiderato – pronunciare quel giudizio.

 

Sempre nella versione ufficiale definitiva figura poi un altro “innocente” ritocco, quanto mai significativo. Abbiamo detto dell’affermazione del Papa secondo cui la sura in cui Maometto depreca l’uso della forza in materia di religione apparterrebbe al suo periodo iniziale (con esplicita accusa al Profeta di aver detto questo pro domo sua, cambiando opinione in seguito, una volta divenuto potente). Bene, ora l’autore aggiunge una duplice precisazione: ci dice che la cosa è ritenuta semplicemente “probabile” (tutt’altro che scontata, quindi), e per di più solo “da una parte degli esperti”. Concretamente, questo può anche significare che gli studiosi che condividono la congettura sono solo due o tre.

Noi ovviamente non entriamo nel merito della fondatezza della congettura stessa, non avendo la minima competenza per farlo. Ma lascia perplessi il fatto che in una lectio magistralis platealmente applaudita come modello di rigore intellettuale figurino simili sbavature, indizio di scarsa ponderazione, di cedimento a un’improvvida foga argomentativa. Pecche che sarebbero da evitare non solo in una lectio magistralis, ma anche in un semplice lavoro scritto per ottenere la libera docenza.

 

 

Le reazioni alla lectio

 

Come è noto, il mondo musulmano ha reagito violentemente: non solo le masse fanatizzate, ma anche la stragrande maggioranza degli intellettuali, ivi compresi molti di quelli notoriamente moderati.

Buona parte dei media laici italiani, solo parzialmente seguiti da altri in Europa e in America, hanno invece fatto quadrato attorno al Papa in nome della libertà di pensiero e del dovere di difendere la causa dell’Occidente.

 

Riportiamo qui qualcuno degli argomenti addotti a difesa di Benedetto XVI.

 

a) “Il Papa è stato attaccato dall’islam per distrarre i popoli arabi dai loro problemi interni, e al coro si sono uniti i media occidentali anticristiani e anticattolici.”

Sono gli argomenti di chi non ha argomenti e si rifugia perciò in un processo alle intenzioni: il Papa sarebbe vittima di un attacco premeditato, suggerito da un’ostilità preconcetta e indiscriminata.

 

b) “Quello che il Papa ha detto è vero, e aveva il diritto di dirlo: ci mancherebbe altro che non potessimo neanche più esprimerci liberamente.”

Facile ribattere che la convinzione di essere nel giusto e il diritto alla libertà di espressione non escludono affatto che in determinate circostanze certe affermazioni risultino gravemente inopportune.

 

c) “Le presunte offese non erano tali, in quanto non si trattava di pensieri del Papa, ma di citazioni.” La cosa viene data per scontata, senza neppure entrare nel merito analizzando la struttura del testo.

Su questo punto abbiamo già espresso il nostro giudizio.

 

d) “La reazione islamica è scattata quando ancora non era stata diffusa la versione araba del testo completo, sicchè si è basata su due o tre semplici frasi estrapolate dal loro contesto e quindi mal intepretate.”

Già, ma bisognava tener conto di come vanno le cose in queste situazioni, e regolarsi di conseguenza. Infatti:

 

1) da un lato, non si poteva pretendere che le masse arabe si sciroppassero integralmente un documento di quella fatta, né si può dire che i media abbiano barato trascegliendo nel densissismo testo le frasi incriminate, che sono obiettivamente quanto mai significative;

 

2) dall’altro, soprattutto, tali frasi - contrariamente a quanto si è ripetuto fino alla noia - non perdono proprio nulla della loro aggressività se collocate sia nel loro contesto originale, sia nel contesto globale della lezione, in cui del preteso invito a un dialogo interreligioso franco e cordiale non vi è proprio la minima traccia.

 

              e) “Non si può lasciare solo il Papa di fronte all’attacco islamico.” 

Già. Ma chi ha attaccato per primo?

E soprattutto: se Benedetto XVI viene accusato di aver offeso l’islam e lui nega, per vedere chi ha ragione occorre esaminare a fondo il testo: è in primo luogo lavoro da linguisti e da teologi, al quale sembrano poco adatti un Fini, un Casini o un Calderoli. Non ha senso fare una difesa d’ufficio solo perché noi siamo dalla sua parte, perché lui è “dei nostri”.

Così facendo, tutto si riduce a una disputa tra tifosi: conta lo schieramento di appartenenza, in totale mancanza di spirito critico. Vale la logica del “Sei amico mio o del giaguaro?”

Non si entra mai nel merito, tutto viene immediatamente ideologizzato.

 

f)  “Al Papa va riconosciuto il merito di aver parlato chiaro”

Già; il guaio è che al tempo stesso, paradossalmente, si pretende di negare che egli abbia offeso l’islam:

“Il Papa ha parlato con le parole dell'Imperatore bizantino, esprimendo il sentimento unito della Chiesa cattolica come della Chiesa ortodossa, dell'Occidente come dell'Oriente.” Così, per fare un esempio, scrive Gianni Baget Bozzo, che insiste: “Gliele ha cantate chiare, ha avuto il coraggio [!] di dire pane al pane e vino al vino”.

Bene. Con questo però si contraddice frontalmente la smentita papale fatta in occasione dell’Angelus, volta a stornare proprio l’ accusa di aver usato un tono aggressivo.

  Ma ciò che soprattutto è grave è che, se si crea un clima di tensione e di minaccia, non ci va di mezzo solo il Papa; sicché il decantato “coraggio” è legittimo avvertirlo e denunciarlo come incoscienza, o quanto meno come imprudenza. Quel che ha fatto, tra gli altri, il “New York Times”.

 

g) “Il Papa punta a un "dialogo sincero e rispettoso", un "dialogo autentico", "interculturale e interreligioso"; non un dialogo diplomatico, ma "in spirito e verità"”. Così Samir Khalil Samir, su “Avvenire” del 26/09/2006.

Incredibile: si farebbe paladino del dialogo proprio chi, dopo aver ridimensionato il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, ci ha appena offerto uno splendido saggio di questa sua passione per il dialogo non citando neppure una parola della risposta del dotto persiano al durissimo attacco dell’imperatore bizantino! Non gli ha  concesso diritto di replica. Dove, bene o male, un dialogo c’era, l’ha ridotto a un monologo, a sua volta ridotto a una frase, la più dura e provocatoria tra quelle che conteneva. Oh, quale meravigliosa attitudine dialogante!

 

Inutile ripetere poi che il saggio di “dialogo” che ci ha fornito era tutto fuor che “rispettoso”. Potremo concedere perlomeno che fosse “sincero”? Ahimè, neppure questo possiamo dire, vista la citata smentita del Papa stesso in occasione dell’Angelus, in cui parlava di “una citazione di un testo medioevale che non esprime in nessun modo [sic!!] il mio pensiero personale”.

 Ma, soprattutto, va detto che le belle parole citate da Khalil Samir non sono nel discorso di Ratisbona, sono nel discorsetto propinato successivamente agli ambasciatori arabi nel tentativo di mettere una pezza alla gaffe.

Anche padre Cervellera, di “Asia news” (RM, 2.10.06) arriva a dire che il nocciolo del discorso era un’offerta di dialogo e di amicizia. Bene, noi lo sfidiamo a trovare una sola frase o una sola parola nella “lezione” di Ratisbona in cui si dica questo.

In sostanza, paradossalmente, quelli che evitano di affrontare il testo nella sua specificità letterale sono proprio i difensori del Papa, ossia coloro che accusano gli avversari islamici di non essersi attenuti rigorosamente alla lettera del discorso papale.

 

Dovunque ci si volga, dunque, si trova un terreno sdrucciolevole, su cui è impossibile costruire qualcosa di stabile, approdare a qualche certezza consolante. Si ha l’impressione di essere elegantemente presi per il bavero. Quel che il Papa voleva dire, quel che pensa dell’islam e dei suoi rapporti col cristianesimo, dovremmo apprenderlo dalle sue dichiarazioni esplicative, a posteriori. Siamo formalmente diffidati dal ricavarlo dalle parole da lui pronunciate a Ratisbona.

 

Noi la pensiamo come il papa su tre punti capitali:

 

1) l’islam per espandersi ha usato la spada molto più di quanto abbia fatto il cristianesimo;

2) la libertà di religione, in quanto aspetto della libertà di pensiero, è sacra: una fede religiosa non può essere imposta con la violenza;

3) il dialogo interreligioso non può portare a niente di sostanziale: è possibile dialogare solo a prezzo di un’enorme ipocrisia, evitando accuratamente di confrontarsi sulle differenze dottrinali qualificanti. Si dovrebbe semmai parlare di cooperazione interreligiosa, concentrandosi sui settori in cui si può fare qualcosa insieme: pregare, finanziare e organizzare assistenza umanitaria, mediare per la pace, e simili. Senza toccare il tessuto dogmatico, che contiene una quantità di punti “non negoziabili”. 

 

Ma serve a poco dire che il Papa su questi punti ha ragione. Resta il fatto che, in quanto papa, certe cose non doveva dirle.

 

Se i media italiani si sono in genere prodigati per portare soccorso al Pontefice, ben diverso è stato l’atteggiamento di gran parte della stampa estera. Duro soprattutto, come si è accennato, il “New York Times”:

«C'è già abbastanza odio religioso nel mondo. Pertanto disturba in modo particolare il fatto che Papa Benedetto XVI abbia insultato i musulmani, citando una descrizione dell'Islam, risalente al quattordicesimo secolo, in cui se ne parlava come (di una religione) «cattiva e inumana».

E più avanti: «Il mondo ascolta attentamente le parole di ogni papa. Ed è tragico e pericoloso quando un pontefice semina il dolore, in maniera deliberata o per negligenza. [Benedetto XVI] deve presentare scuse profonde e convincenti, mostrando che le parole possono anche essere strumento per rimarginare le ferite».

In effetti, come si è detto, le scuse ci sono state, anche se si è badato bene a non farle apparire tali, presentandole sotto la forma di “chiarimenti” e “precisazioni”.

 

 

Effetti del discorso

 

Bin Laden si è certo fregato le mani, augurandosi che di discorsi simili il Papa ne faccia uno ogni mese. Ingenuo ribattere che Dio dal male può trarre un bene, che sa scrivere dritto sulle righe storte degli uomini ecc. ecc.: quand’è così, dovremmo dire che anche Hitler e Stalin sono stati un dono della Provvidenza.

Dopo le prime reazioni violente, si sono avute da entrambe le parti iniziative per attenuare la tensione: l’imam di Roma col rabbino capo della città a colloquio con non so che cardinale, il papa che riceve gli ambasciatori dei paesi musulmani …  

 

L’ipocrisia conviene a tutti, perché lo scontro non conviene a nessuno, salvo che agli estremisti. Tutti i “responsabili” si sono spaventati e han cercato di smorzare i toni della polemica.

Benedetto XVI in particolare si è limitato a snocciolare dichiarazioni di intenti, cercando di portare l’attenzione sul futuro distogliendola dal passato, ossia dal senso autentico del suo discorso: non voleva più guardarci dentro perché non gli conveniva.

Ma il fatto che un po’ tutti abbiano cercato di gettare acqua sul fuoco non ci impedisce di vedere che il Papa vi aveva gettato olio, o addirittura benzina. In ogni caso, vi sono alcune conseguenze irreversibili:

 

  perdita, da parte del Papa, del ruolo super partes di cui in certo senso godeva, e quindi indebolimento della sua capacità di mediazione;

presumibile inserimento del discorso di Ratisbona nel catalogo delle infamie antiislamiche, delle onte da lavare, anche a distanza di secoli;

implicita parziale riabilitazione di personaggi malvisti dalla Chiesa come Zapatero e Ahmadinejad, che si sono furbescamente premurati di accorrere in appoggio del Papa, offrendosi come “pompieri”;

impossibilità di mantenere, nella visita papale in Turchia compiuta successivamente tra ottobre e novembre, quell’atteggiamento di fermezza circa l’inopportunità dell’approdo turco all’Europa che Ratzinger aveva manifestato nel 2004, quando era ancora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.

 Di fatto, nella suddetta visita Benedetto XVI è venuto a trovarsi quasi andicappato, bisognoso di farsi perdonare qualcosa, e ha dovuto rinunciare ad ogni presa di posizione che potesse in qualche misura contrariare l’interlocutore e il suo popolo, a loro volta bisognosi di mostrare all’Europa restia ad accoglierli la propria capacità di imporre, nonostante tutto, il più assoluto rispetto per il Pontefice. È stato l’incontro di due debolezze in cerca di mutuo soccorso.

 

In occasione della visita pontificia ad Amman e in Terra Santa del maggio 2009, il ricordo dell’incidente di Ratisbona ha poi aleggiato come l’ombra di Banco ogni volta che il Papa ha avuto contatti ufficiali con rappresentanti qualificati dell’establishment islamico. E in qualche caso non è mancata l’evocazione esplicita: ad esempio, nel discorso del principe giordano Ghazi.

Il principe, come ricorda Sandro Magister, “è il più autorevole ispiratore della lettera aperta "Una parola comune tra noi e voi", indirizzata al papa e ai capi delle altre confessioni cristiane nell'ottobre del 2007 da 138 esponenti musulmani di numerosi paesi.” Si tratta quindi di una personalità quanto mai ben disposta nei confronti del Papa; ma questo non gli ha impedito di esprimersi con molta franchezza. Questi alcuni stralci del suo discorso:

 

“Devo anche ringraziarla, Santità, per il rincrescimento che ha espresso dopo il discorso di Ratisbona del 13 settembre 2006, per il danno causato ai musulmani. […] I musulmani hanno anche particolarmente apprezzato il chiarimento del Vaticano secondo il quale quanto detto a Ratisbona non rifletteva la sua opinione, Santità, ma era semplicemente una citazione in una lezione accademica.”

Del Pontefice dunque è stato apprezzato il fatto che si sia rimangiato quello che aveva detto, assicurando di aver inteso dire tutt’altra cosa da quel che si era capito.

 

E poi: “il profeta Maometto – che i musulmani amano, emulano e conoscono come realtà viva e presenza spirituale – è completamente e interamente differente da come lo si descrive storicamente in Occidente, a partire da san Giovanni Damasceno. Questi ritratti distorti, fatti da chi non conosce né la lingua araba, né il Sacro Corano oppure non comprende i contesti storici e culturali della vita del Profeta e quindi fraintende e interpreta male i motivi e le intenzioni spirituali che sottendono molte sue azioni e parole, sono purtroppo responsabili di tanta tensione storica e culturale fra cristiani e musulmani.”

Qui l’allusione è fin troppo scoperta: lo sbrigativo ritratto di Maometto che Benedetto XVI aveva schizzato usando le parole dell’imperatore bizantino è senza dubbio, nel pensiero del principe Ghazi, uno di quei ritratti distorti fatti da chi, non conoscendo né la lingua araba né il Sacro Corano, semina zizzania e incomprensione fra i seguaci delle due religioni.

 

Conclusioni

 

Che quella di Ratisbona sia stata un’esibizione infelice da parte del Papa è dunque fuori discussione. Come abbiamo visto, l’autore stesso ha fatto il possibile per rimangiarsi nella sostanza l’accusa più violenta, pago di salvare la faccia evitando una rettifica formale e la presentazione di scuse ufficiali.  

Possiamo dunque concludere riprendendo quanto abbiamo detto all’inizio. Si ha un bel dire che il rispetto dovuto ai fedeli di una religione non implica automaticamente il rispetto per la sua dottrina. Il fatto è che, in primo luogo, se è lecito far l’elogio della propria fede, è senz’altro da evitare, come nel campo della pubblicità, la denigrazione della concorrenza. Altrimenti il dialogo, a qualunque livello si voglia immaginarlo, diviene impossibile.

 

In secondo luogo, quando si vuole disinnescare la miccia insita nel fanatismo di una religione o di un’ideologia (e questo è proprio l’intento del Papa!), il più elementare buon senso suggerisce di mostrare apprezzamento per gli aspetti meno violenti di quel credo, incoraggiando gli estremisti ad attestarsi su posizioni più moderate. Se dunque nel Corano possiamo rinvenire affermazioni parzialmente contraddittorie circa l’uso della violenza in materia di religione, cerchiamo di valorizzare quelle più “ragionevoli”, evitando per quanto possibile di demonizzare le altre.

Orbene, Benedetto XVI, giova ripeterlo, ha fatto precisamente l’opposto: è arrivato addirittura al punto di citare un’affermazione moderata di Maometto definendola insincera (perché dettata dal timore) e quindi superata da altre più bellicose appartenenti a un periodo in cui il Profeta poteva parlare da una posizione di forza!

In tal modo, anziché dare un appoggio ai moderati e spiazzare gli estremisti, come sarebbe imperativo fare in un clima di incombente scontro di civiltà, ha ottenuto il risultato di sconcertare - per non dire irritare - gli uni ed esasperare gli altri.

 

Il Pontefice ha poi gravemente sottovalutato il fatto che la centralizzazione della Chiesa cattolica, dando alle parole della sua guida supema una risonanza planetaria, impone per ciò stesso un altissimo senso di responsabilità. Il quale dovrebbe suggerire che un papa non può permettersi di fare pubblicamente le pulci a Maometto e al Corano. È come se dall’altra parte, al massimo livello di ufficialità e senza alcuna cautela di linguaggio o precisazione dottrinale, si accusassero i cattolici di essere politeisti (a motivo della Trinità) e cannibali (in quanto dediti al sacro banchetto dell’Eucarestia). Farebbe meraviglia se i cattolici si mostrassero risentiti?

Normale sarebbe stato dunque attendersi la reazione indignata di un mondo, quello islamico, in cui il fanatismo religioso è presente in misura certo assai superiore che in quello cattolico.

Benedetto XVI non se n’è dato pensiero, e le sue tardive e imbarazzate precisazioni non sono state che le classiche lacrime di coccodrillo.

 

Qual è l’immagine di Joseph Ratzinger che esce da questa disavventura?

Per oltre due decenni egli aveva vissuto come scudiero di un uomo dalla personalità esuberante quale era Giovanni Paolo II; aveva lavorato nell’ombra a coprigli le spalle come guardiano dell’ortodossia, ma senza condividere talora le sue coraggiose aperture su molteplici fronti. È legittima dunque l’impressione che, una volta assurto al prestigioso soglio (e per di più sollecitato dall’occasione del suo primo viaggio pastorale, nell’amata patria tedesca), abbia pensato di poter ormai agire liberamente, sparando ad alzo zero contro tutti i nemici della fede, a dritta e a manca.  

 

Cannonate quindi (con compiacimento dell’intellighenzia islamica) contro il relativismo laico che nel mondo occidentale starebbe distruggendo i valori; e qualche giorno dopo cannonate contro l’islam, col sostegno di un coro di voci amiche, soprattutto fra i cosiddetti “teocon”.

La fama di teologo di vaglia - ossia di uomo di pensiero, di “ragione” - gli aveva infatti subito conciliato le simpatie incondizionate di molti laici, anche non credenti, i quali hanno pertanto applaudito al suo exploit di Regensburg come alla manifestazione di una lucida intelligenza, arrivando a parlare di “formidabile lezione del professor Ratzinger”.

 

In effetti, teologia, studi biblici, storia della Chiesa sono da un paio di secoli campi in cui brilla la cultura accademica tedesca; che cosa potrebbe esservi dunque di più tipico di un professorone teutonico che pontifica in materia di dottrina in una blasonata facoltà teologica d’oltralpe? Torna alla mente il fantomatico Hans von Grobler, il luminare autore di una “mastodontica monografia” col quale disputa appassionatamente lo sfortunato protagonista de “L’eresia catara” di Pirandello.

Probabilmente il ritrovarsi nell’ambiente in cui si muoveva con grande autorevolezza quarant’anni prima ha fatto sottovalutare al Nostro i pericoli derivanti dal suo mutato ruolo: ancora troppo professore per assolvere correttamente ai compiti di papa, già troppo papa per essere ancora ineccepibile come professore.

La foga polemica e il plauso dei simpatizzanti lo ha portato a ignorare, come abbiamo visto, sia la convenienza diplomatica d’obbligo in chi ricopre un ruolo di massimo operatore religioso sia il rigore metodologico proprio dello studioso di razza.

 

Più d’un vaticanista l’ha detto. Carlo Silini ha parlato di “ingenuità”, Vittorio Messori ha definito il Papa “alieno da ogni furbizia” (!); Accattoli lo ha ripetutamente qualificato come un “solista”, abituato a scrivere i propri documenti senza farsi consigliare dai collaboratori.

Era pertanto inevitabile che prima o poi andasse a sbattere rovinosamente. La “formidabile lezione” si rivela in sostanza per quel che è: una formidabile gaffe.

 

  

 

P. S. (marzo 2009) 

 

La recentissima vicenda della remissione della scomunica ai vescovi lefebvriani, con l’imprevedibile polemica che ha investito la Chiesa a causa delle precedenti esternazioni negazioniste di uno dei religiosi, pare per certi versi costituire una copia della gaffe di Ratisbona.

Senza entrare nel merito (ci ripromettiamo di farlo eventualmente in seguito), possiamo fare un paio di considerazioni basandoci su un elemento inoppugnabile: la lettera del 10 marzo 2009, in cui il Papa stesso ammette senza mezzi termini l’errore – suo e dei suoi stretti collaboratori - di non aver dato la debita attenzione ai documenti presenti in Internet.

 

Poiché uno dei maggiori rimproveri mossi a Benedetto XVI è proprio quello di non aver preventivamente consultato gli episcopati nazionali (in particolare quello svizzero, più da vicino toccato dalla questione lefebvriana), e considerando che, se una consultazione - o quanto meno una comunicazione - vi fosse stata, assai probabilmente il caso Williamson sarebbe venuto a galla in tempo utile, tornano in primo piano le responsabilità del papa “solista”. Inevitabile che i detrattori si accaniscano nell’irrisione, dicendo in sostanza: “Ben ti sta. Vuoi fare tutto da solo: guarda che disastri combini”.

 

In ogni caso, il Papa parla della vicenda come di una sua “panne”; la traduzione vaticana dell’originale tedesco usa il termine “disavventura”. Garbati eufemismi per non dire apertamente che ancora una volta si tratta di un infortunio, ossia di una gaffe. E se errare è umano, perseverare … sappiamo tutti che lo è molto meno.

 

Pare comunque chiaro che il Pontefice è scarsamente provvisto della virtù cardinale della Prudenza, e men che meno dispone del dono soprannaturale del Consiglio. Il che significa che lo Spirito Santo e le varie Madonne attualmente in servizio - in primis quella di Medjugorje - non gli danno assistenza alcuna: è un dato di fatto che non han mosso un dito per risparmiargli la gaffe. 

 

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