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Friday, 19 April 2024
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                                   L’onere della prova

 

 

 

 

      Dopo l’argomento che abbiamo definito “principe”, quello forse più utilizzato dall’apologetica - e al quale Messori dedica buona parte del suo libro - consiste nella demolizione delle varie “ipotesi alternative” formulate dalla critica razionalistica per “spiegare” la risurrezione di Gesù.

 

      Tra queste ipotesi, vi è in primo luogo quella già citata di un’allucinazione collettiva dei discepoli; poi il furto del cadavere (operato dai discepoli stessi, oppure da ignoti, perseguenti finalità da precisare; si è persino pensato a uno “spostamento” del corpo da parte dello stesso Giuseppe d’Arimatea); lasostituzione” del Crocifisso (ad esempio, il Cireneo sulla croce al posto di Gesù); la morte apparente (per cui Gesù si sarebbe “risvegliato” nel sepolcro uscendone poi con l’aiuto di qualcuno che avrebbe rimosso la pietra); la creazione tardiva di unmito” propiziata da suggestioni culturali varie; e così via. Non escluse ovviamente varianti e combinazioni diverse delle suddette ipotesi.

 

Ora, è evidente che non riuscirà difficile mostrare i punti deboli di ciascuna di tali congetture. Ma è ridicolo pretendere che da ciò risulti automaticamente confermata l’ipotesi della Risurrezione.

 

Come già abbiamo detto parlando dell’ “argomento principe dell’apologetica pasquale”, nessun commissario di polizia alle prese con un giallo insolubile, una volta accertata l’inverosimiglianza delle varie ipotesi esaminate - che pur sembrino esaurire il ventaglio delle possibilità teoriche - accetterebbe di prendere in considerazione la risurrezione di un morto sepolto da un paio di giorni qualora ciò consentisse di completare il puzzle, facendo quadrare tutte le circostanze di tempo e di luogo.

Non lo sfiorerà neppure l’idea di assumere la risurrezione come ipotesi di lavoro; piuttosto, si rassegnerà a considerare l’enigma insolubile.

 

Certo, si obbietterà che, se Gesù era Dio, è assurdo escludere la possibilità della Risurrezione. Ma, occorre ripetere, questa è una smaccata petizione di principio: è la risurrezione di Gesù che deve essere prova della sua divinità, e non viceversa.

In fondo, a ben guardare, questo è il succo dell’argomentazione apologetica: i discepoli furono costretti a credere perché fecero l’esperienza, al di là di ogni ragionevole dubbio, del Cristo risorto.

Non è dunque la fede nella sua divinità che deve garantire la storicità della Risurrezione, poiché proprio in questo caso tale storicità risulterebbe sospetta: sarebbe convinto della veridicità fattuale dei racconti pasquali chi li legge già persuaso che siano veridici.

È, al contrario, la storicità documentabile della Risurrezione che deve certificare la divinità di Gesù.

 

Ora, l’argomento dell’inconsistenza delle ipotesi alternative intese a spiegare il sorgere della fede nel Risorto stravolge in effetti la logica della dimostrazione: l’onere della prova viene accollato a chi nega il fatto prodigioso anziché a chi lo afferma.

Si arriva al grottesco di pretendere dai giudei contestanti la Risurrezione la prova che essa non era avvenuta, magari con l'esibizione del cadavere di Gesù.

 

Tra le varie conseguenze di tale impostazione aberrante vi è il fatto che in questo modo il sepolcro vuoto di fatto assurge, surrettiziamente, a prova principe della Risurrezione.

Di per sé la tomba vuota, è ovvio, non dimostra niente. Su ciò tutti concordano, e gli esegeti in genere sottolineano che gli evangelisti non intendono affatto addurla come prova, riservando tale compito alle apparizioni.  

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Ma se poi i ruoli vengono invertiti, e sono gli increduli a dover dimostrare che la Risurrezione non è avvenuta; allora, dato che l’unico concreto elemento di prova sarebbe per loro l’esibizione del cadavere, ecco che il sepolcro vuoto, ossia la scomparsa e l’irreperibilità della salma, diviene argomento decisivo, su cui di fatto grava tutto il peso della dimostrazione.

In altri termini: è vero che il sepolcro vuoto non dimostra niente, ma esso impedisce ai negatori della Risurrezione, ai quali è stato in effetti addossato l’onere della prova, di fornire l’unico elemento probante di cui potrebbero disporre.

 

Si noti fra l’altro che la proclamazione pubblica del Cristo risorto ha luogo a ben cinquanta giorni dall’avvenuta risurrezione. Ora, se il tentativo di recuperare il cadavere avrebbe avuto poche chances di riuscita immediatamente dopo la Pasqua, a questo punto non ne aveva più nessuna. Sicché l’asserzione dei discepoli non era più in alcun modo confutabile.

Risibile perciò parlare, come fa Sabino Palumbieri, di “sfida circostanziata” lanciata da Pietro agli scettici, precisando che “in quel momento Pietro si rivolgeva direttamente a gente che ben conosceva l’ubicazione e la situazione della tomba di Cristo, sigillata solo qualche settimana prima, e che, invece, ora avrebbero potuto verificare vuota. Esattamente al contrario di quella di Davide” (GRLS 65).

Mirabile esempio di come si può riuscire a rivoltare la frittata.

 

In realtà, l’onere della prova tocca, oggi come nell’anno 30 d. C., agli assertori della Risurrezione. Va ribadito che la sola vera prova dell’evento prodigioso sarebbe stata l’apparizione del Risorto ai suoi nemici; meglio: a tutti coloro che l’avevano conosciuto vivo e lo sapevano morto.

Sono duemila anni che lo si ripete; e l’apologetica ha sempre opposto a tale richiesta del più elementare buon senso argomenti speciosi.

D’accordo, Dio vuol restare nascosto, affinché la fede sia meritoria. Ma allora è assolutamente fuori luogo che gli apologeti si impegnino a “dimostrare”, con cattive argomentazioni, che le cose stanno come dicono gli evangelisti.

 

In ogni caso, la nostra posizione è chiarissima: non è nostro compito elaborare teorie più o meno complesse per spiegare come siano andate le cose. Qui, più che mai, è il caso di un reciso “hypotheses non fingo”.

Noi ci limitiamo a rilevare tutte le inverosimiglianze e contraddizioni presenti nei resoconti forniti dagli evangelisti: troppe, decisamente, e troppo gravi per non mettere in crisi la fede di molti.

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