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controapologetica
 
Saturday, 12 October 2024
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         L'argomento principe dell'apologetica pasquale 

 

 Sommario:

 

- La tesi di fondo

- Il ricorso all’inverosimiglianza come forma di dimostrazione per assurdo

- La pretesa estraneità della risurrezione alla cultura giudaica

- L’ingannevole criterio dell’ “evidenza”

- “Follia per i pagani”?

- Una clamorosa inverosimiglianza di segno opposto: la questione dei preannunzi

- La tesi della “non centralità” dei preannunzi

- La tesi di rincalzo: l’ “interpolazione” dei preannunzi 

- Le controverse profezie

- Conclusione sull’ “argomento principe”

                                                                                                                     

 

La tesi di fondo  

 

L’argomento principe dell’apologetica per sostenere la storicità dei racconti della Risurrezione è, almeno dai tempi di Giovanni Crisostomo, il seguente.

 

L’arresto, la condanna e la crocifissione di Gesù avevano portato i discepoli a un tale grado di frustrazione e abbattimento, facendo crollare tutte le speranze di riscatto messianico riposte in lui, che, si sostiene, sarebbe assolutamente inspiegabile il loro repentino mutamento psicologico (dopo la Pasqua ci appaiono infatti non solo rinfrancati, ma addirittura entusiasti e decisi a compiere la loro missione) se non si fosse verificato un evento straordinario che fugò ogni loro perplessità con la forza di un’evidenza incontestabile.

Rifiutando di accettare il miracolo della risurrezione di Gesù, si afferma, saremmo quindi costretti ad accettare un miracolo ancora più grande, ossia la subitanea stupefacente trasformazione dello stato d’animo dei discepoli. Per dirla con le parole di Messori: se non si ammette la Risurrezione, risulta inspiegabile “il passaggio dalla disperazione del venerdì alla gioia e all’energia indomabile della domenica mattina” (DCR 119).

 

A ribadire il carattere di ufficialità di tale argomento possiamo ricordare l’uso che ne fece ad esempio lo stesso Giovanni Paolo II quando a metà degli anni Novanta, in occasione dell’omelia pasquale, lo ripresentò corredandolo delle seguenti puntualizzazioni:

gli apostoli non erano certo dei visionari, facili all’allucinazione: eran pescatori o artigiani, ossia gente concreta, pragmatica, saldamente legata alla realtà e abituata a lavorare duramente per guadagnarsi il pane;

non erano degli entusiasti, in condizione euforica: al contrario, erano sconvolti e depressi;

non erano dei bugiardi, come dimostra il fatto che seppero anche morire per difendere la propria testimonianza.

 

Sulla stessa linea è il Catechismo della Chiesa Cattolica, che, affermando decisamente la storicità della Risurrezione, punta quasi esclusivamente su questo argomento.

Al quale alcuni, tra cui Messori, ne affiancano uno di carattere storico: a rendere inspiegabile, in assenza della Risurrezione, la repentina trasformazione di spirito degli apostoli starebbero non solo le circostanze ora esposte, inerenti alla loro psicologia individuale e collettiva (per cui potremmo parlare di un’inverosimiglianza a livello per così dire esistenziale), ma anche un dato di fatto di ordine culturale: l’idea di una risurrezione dai morti immediata (non alla fine dei tempi, dunque) era completamente estranea alla cultura giudaica del tempo (era “scandalo per i Giudei”).

Sarebbe pertanto assurdo, si afferma, supporre un’aspettativa del genere operante a livello profondo nell’animo di chi poi avrebbe proclamato il Cristo risuscitato.

 

Ci proponiamo di dimostrare l’inconsistenza di tale argomentazione apologetica considerandola da diversi punti di vista. Esamineremo dapprima le questioni di carattere metodologico e culturale, per finire con quello che è il nocciolo dell’argomentazione, ossia l’ “inverosimiglianza esistenziale” del passaggio dei discepoli dalla disperazione del venerdì all’euforia della Pasqua.

 

 

Il ricorso all’inverosimiglianza come forma di dimostrazione per assurdo 

 

Innanzitutto, sotto il profilo metodologico, vediamo che l’argomentazione ci fornisce una prova indiretta. In sostanza, si dice che le cose devono stare in un certo modo perché, se così non fosse, si avrebbe un’inverosimiglianza, si verificherebbe cioè una situazione altamente improbabile.

È questa una strategia dimostrativa del tipo di quella che in matematica si chiama dimostrazione per assurdo: se non risultasse vera l’ipotesi che si è formulata, dovremmo ammettere qualcosa che è incompatibile con una o più verità che già possediamo.

 

In matematica tale strategia funziona benissimo, il procedimento è pienamente valido. Ma è valido perché, mentre una delle due ipotesi contrarie (e quindi reciprocamente escludentisi) va scartata in quanto “assurda”, l’altra non contraddice ad alcuna verità conosciuta.

Nel nostro caso invece, se da un lato abbiamo l’ “assurdità” del comportamento dei discepoli qualora la Risurrezione non fosse avvenuta, dall’altro abbiamo pure un’assurdità: nientemeno che l’ “assurdità” di un morto di tre giorni, per di più già sepolto, che risuscita, esce dalla tomba da solo e se ne va in giro a incontrare gli amici entrando e uscendo a suo piacimento dalle porte chiuse!

 

Emergono due considerazioni:

 

a) il procedimento della dimostrazione per assurdo non è applicabile, per principio, nel nostro caso, poiché entrambe le ipotesi incompatibili tra cui dobbiamo scegliere contraddicono quanto noi conosciamo della natura umana; e tale considerazione già basterebbe a chiudere il discorso, invalidando le conclusioni dell’apologetica;

 

b) l’assurdità del comportamento dei discepoli in caso di Risurrezione non avvenuta appartiene all’ordine dei fenomeni psicologici, mentre l’assurdità della risurrezione e dell’agire del Cristo risorto appartiene all’ordine dei fenomeni naturali. L’una vìola leggi della psicologia, l’altra leggi della biologia e della fisica.

Ora, è incontestabile che le leggi psicologiche, per quanto ben assodate, non hanno certo la rigidità, l’inderogabilità, l’assolutezza delle leggi fisiche e biologiche.

Potrà essere altamente improbabile che determinate persone poste in certe circostanze si comportino in un certo modo; ma che un aereo a cui si sono spenti tutti i motori “precipiti” verso l’alto anziché verso il basso è ancora più improbabile.

 

Voler quindi dimostrare la storicità di quelle clamorose violazioni di leggi naturali che sono la Risurrezione e le apparizioni pasquali mediante l’impossibilità della violazione di leggi psicologiche è pretesa insostenibile. Il determinismo che regge il mondo della natura non vale per il mondo dello spirito. Spiritus flat ubi vult.

Nessuno Sherlock Holmes, nessun Maigret, nessun Derrick accetterebbe mai di prendere in considerazione l’ipotesi della risurrezione di un morto, anche se questo consentisse di eliminare qualche grave inverosimiglianza nel comportamento dei protagonisti del giallo.

 

Questo in via di principio viene ammesso dall’apologetica. Sempre però sottolineando che, non essendovi nulla di impossibile a Dio, un “‘libero pensatore’, se davvero è libero da pregiudizi e apriorismi”, come dice Messori, deve essere aperto “all’imprevisto, alla sorpresa”, e quindi anche ad ammettere la risurrezione di un morto (p. 83).

Giusto. Poiché niente è impossibile a Dio, Gesù può essere risorto, se era Dio. Ma la sua divinità va dimostrata prima, perché possa poi venire utilizzata nella dimostrazione per assurdo che deve provare la Risurrezione.

Altrimenti, giova ripeterlo, abbiamo una petitio principii: la conclusione cui si vuole giungere (“Cristo è Dio”) viene abusivamente utilizzata nella premessa (“Cristo, essendo Dio, può risorgere”) e quindi implicitamente già data per vera. In tal modo, alla fine del ragionamento, nell’output, ritroviamo quello che surrettiziamente abbiamo utilizzato per l’imput come se si trattasse di una verità accertata.

I resoconti evangelici invece ci mostrano chiarissimamente che la direzione è proprio quella opposta, dal vedere al credere: “vide e credette”. Anzi, gli esegeti si compiacciono di sottolineare (lo fa anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, ai nn. 643-44) l’incredulità dei discepoli; e ciò proprio a scopo apologetico, ossia per controbattere l’accusa di credulità.

 

Concretamente, quindi, nel nostro caso noi potremo forse arrivare a dimostrare che era altamente improbabile che i discepoli prostrati riacquistassero l’entusiasmo se non constatando coi propri occhi l’avvenuta risurrezione; e che era altamente improbabile che essi, dati i presupposti della loro cultura, potessero accettare o addirittura concepire l’idea stessa di una risurrezione quale fu quella che poi constatarono; ma non potremo mai dimostrare che era impossibile.

 

Vale ancora la pena di osservare che il rifiuto della dimostrazione per assurdo è anche l’atteggiamento della Chiesa stessa ogniqualvolta si trova di fronte ad asseriti fenomeni preternaturali o soprannaturali, di cui i più frequenti sono le apparizioni della Vergine.

Spesso i fenomeni sono clamorosi, e l’atteggiamento dei veggenti, secondo ogni apparenza, risulterebbe assolutamente incomprensibile qualora non si ammettesse la realtà delle visioni.

Eppure la Chiesa non se ne dà per intesa, e nella stragrande maggioranza dei casi rifiuta di prendere in considerazione questa ‘evidenza’ ricavata per via indiretta sul filo della logica.

 

 

La pretesa estraneità della risurrezione alla cultura giudaica

 

Vediamo ora un altro aspetto della “tesi fondamentale”, quale Messori ce la presenta, e precisamente l’argomento che abbiamo definito di ordine culturale: la risurrezione di Gesù era l’ultima cosa che i discepoli potessero attendersi  perché alla cultura giudaica dell’epoca, si afferma, era totalmente estranea l’idea di una risurrezione individuale (anziché collettiva) e immediatamente sucessiva alla morte (anziché escatologica, alla fine dei tempi).

Per di più, si aggiunge, niente di simile si era mai pensato del Messia; anche la figura del Servo sofferente di Yahweh, di cui parla il Deuteroisaia, non aveva mai ricevuto un’interpretazione di tal genere nell’insegnamento rabbinico.

Non contestiamo. Ma a questo proposito vanno fatte alcune considerazioni.

 

Occorre in primo luogo distinguere nettamente il problema dell’origine del kérygma pasquale - ossia del primitivo annuncio della Risurrezione - da quello della sua diffusione.

Per quanto riguarda l’origine infatti è vacuo pretendere di trovarne degli antecedenti nella matrice culturale: non esiste vera svolta, nella storia della civiltà, che non implichi una rottura rispetto alle convinzioni e al sistema di valori della cultura in cui si verifica.

 

Non è questa la sede per indugiare in disquisizioni  epistemologiche, chiamando in causa magari Foucault; né vale la pena farlo, in quanto il vero problema che ci riguarda è quello della diffusione, anziché dell’origine, dell’annuncio.

Ma non sarà fuori luogo ricordare che in queste svolte è determinante il contributo individuale: è il genio del singolo - o dei singoli - che dischiude una prospettiva nuova, più o meno paradossale, più o meno “scandalosa”, e quindi spesso avversata, pur se alla fine vincente. Questo tanto nella scienza naturale (si pensi a Copernico, a Galileo, ad Einstein) quanto nel campo della fede e delle scienze sociali, come ci ricordano le figure di Budda, di Maometto, di Marx.

 

Questo corrisponde del resto al principio detto appunto della discontinuità, criterio metodologico che viene correntemente applicato nell’indagine sul “Gesù storico” (torneremo a parlarne, considerandolo insieme al suo speculare, il principio “della continuità”).

Ed è proprio alla discontinuità, in fondo, che ci si appella ad esempio quando si afferma possibile un proposito di verginità da parte di Maria; ciò per il fatto che il nubilato a vita nell’ambiente in cui viveva la fanciulla era considerato, senza eccezioni a noi note, un disvalore. Se ragionassimo con la rigidità con cui Messori pretende di escludere - anche per il singolo o per pochi singoli - atteggiamenti mentali difformi da quelli della cultura dominante, dovremmo a priori considerare impossibile un tale proposito.

 

Nel caso del cristianesimo, abbiamo in Gesù una voce che indubbiamente porta una rivoluzione nel modo di porsi dell’uomo di fronte a Dio, nonché nel modo di atteggiarsi di Dio di fronte all’uomo.

Egli potrebbe avere intuito la virtuale ricchezza della figura del Servo sofferente e aver puntato a una sua incarnazione; sta di fatto che, come vedremo, prospettò per sé, ripetutamente e coerentemente, un destino di morte e risurrezione nel giro di tre giorni, oltre a un ritorno escatologico come giudice universale.

Accanto a Gesù, altre figure hanno dato senza dubbio un grande contributo all’elaborazione del nucleo dottrinale del primo cristianesimo, in primo luogo Paolo e l’autore del quarto vangelo (parlando di Paolo alludiamo alla sua dottrina del peccato originale e della giustificazione mediante la fede, non all’annuncio del Cristo morto e risorto, che egli stesso riferisce di aver “ricevuto”).

 

Al di là dunque della questione dell’origine del messaggio cristiano, il problema concreto che qui ci si pone è il seguente: l’ambiente giudaico, e dietro ad esso il mondo ellenistico e quello romano, erano veramente tanto refrattari a tale messaggio da costringerci a postulare un fatto soprannaturale, un’esperienza straordinaria vissuta dai discepoli, per giustificare il proselitismo dirompente della prima predicazione?

Questa è in effetti la tesi dell’apologetica. Ma ci pare che sia facile smentirla. Benché infatti vi siano passi evangelici in cui gli apostoli ci vengono presentati incapaci di comprendere “cosa volesse dire ‘risorgere dai morti’” (e su questi passi torneremo tra poco), sono numerosi gli elementi presenti nei vangeli stessi che ci consentono di dedurre che il ritorno in vita di un morto non era affatto considerato impossibile.

Tali elementi vengono accennati da Messori, ma frettolosamente e indebitamente liquidati come non pertinenti. Vediamoli.

 

Vi sono innanzitutto le risurrezioni operate da Gesù: quelle della figlia di Giairo e del figlio della vedova di Naim, nonché quella spettacolare di Lazzaro, morto da quattro giorni.

Serve a poco dire che queste sono semplici “rianimazioni”, ritorni alla vita terrena, anziché resurrezioni “per la gloria” quale sarebbe invece quella di Cristo; nessuno infatti ci autorizza a dire come sia stata considerata la risurrezione di Gesù dai primi che ne fecero l’esperienza il giorno di Pasqua: potrebbe benissimo essere stata considerata anch’essa una “rianimazione”.

Non dobbiamo confondere l’assetto dottrinale - il cui livello, a partire dalla stesura stessa dei vangeli (i quali sono già una prima sistemazione teologica) ha continuato ad elevarsi sino al giorno d’oggi - con quella che fu l’esperienza concreta della Risurrezione fatta dai primi testimoni.

 

Analogamente, quando leggiamo nel Vangelo che Gesù viene ritenuto dalla “gente” o il Battista redivivo, o Elia o Geremia o qualche altro profeta, appare futile precisare con pignola sicurezza che queste dovevano essere “apparizioni” anziché “resurrezioni”: si tratta di distinguo gratuiti, motivati solo dal desiderio di salvare la tesi che questi dati vengono a minare.

In primo luogo, infatti, anche quelle del Cristo sono in fondo nient’altro che apparizioni, di durata assai breve, e per di più di statuto, numero e localizzazione assai incerti, come abbiamo visto a suo luogo; mentre, in certo senso, proprio le “rianimazioni” del tipo di quella di Lazzaro, in quanto durature e constatabili da chiunque, meriterebbero a pieno titolo di venir definite risurrezioni.

E quando poi leggiamo che la resurrezione di Gesù “non annuncia la fine dei tempi, ma appartiene alla fine del mondo ormai sopraggiunta, si muove già nella nuova creazione”, mentre l’apparizione dei profeti “sarebbe appartenuta ancora al vecchio mondo”, è chiaro che ci troviamo di fronte a uno sfoggio di sottigliezza teologica assolutamente fuori della portata dei discepoli del Cristo.

Vien quasi da sorridere, ad esempio, se pensiamo che questi discepoli, dopo essere stati catechizzati per 40 giorni, avevano ancora il candore di chiedere, a quel Risorto che, a detta di Messori, si muoveva già “nella nuova creazione”: “Signore, è questo il tempo in cui ricostruirai il regno d’Israele?”

 

In sostanza, i racconti evangelici ci dicono chiaramente che l’idea di poter incontrare vivo qualcuno che era morto da qualche ora o da qualche giorno (come i due fanciulli e come Lazzaro), da qualche mese (come il Battista; e tra chi lo temeva risuscitato vi era lo stesso Erode!) o da qualche secolo (come Geremia) era tutt’altro che estranea alla mentalità giudaica del tempo. Questo senza pregiudicare ogni eventuale futura definizione dello statuto teologico di tali “risurrezioni”.

Ma possiamo andare oltre: se consideriamo la richiesta dei farisei a Pilato di porre una guardia armata al sepolcro per impedire il furto del cadavere, vediamo che i loro timori testimoniano in modo indiretto ma inoppugnabile che la mentalità corrente ammetteva la possibilità di una risurrezione, quale che fosse: proprio questo aveva annunciato Gesù, e proprio questo c’era da temere che la “gente” credesse!

E per di più constatiamo che Pilato, non muovendo alcuna obiezione alla richiesta che gli vien fatta, indirettamente mostra a sua volta di considerare fondati i timori dei farisei, e quindi attendibile l’ipotesi di una vox populi pronta a proclamare risorto un uomo morto tre giorni prima.

 

Giova ripetere: il fatto che queste “apparizioni” e “rianimazioni” appaiano alla scienza teologica ben altra cosa rispetto a quella del Cristo non toglie affatto che, quando la teologia cristiana ancora non era nata, ci fosse la possibilità che si diffondesse tra le folle giudaiche la voce di una “risurrezione”.

In qualunque modo noi oggi, a tavolino, vogliamo considerare lo status del Cristo risorto rispetto a quello di tutti gli altri “risorti” (o ritenuti tali) di cui si è detto, è indubbio che, dal punto di vista soggettivo, per i testimoni di una di tali risurrezioni, identico era lo shock, ossia quell’esperienza sconvolgente che viene postulata dall’apologetica come radice necessaria della “conversione” pasquale dei discepoli.

Il che mina alla radice la tesi secondo cui solo l’evidenza incontestabile di uno o più incontri col Gesù risorto poteva far sorgere nei discepoli depressi l’idea di una risurrezione che era totalmente estranea alla loro cultura. Anche ammesso che per la maggioranza dei giudei fosse difficile accettare tale idea, è fuor di luogo affermare che era impossibile.

 

Del resto, quanto sia fragile ogni tesi del genere lo mostra una strategia apologetica che va nella direzione opposta a quella utilizzata da Messori.

Mentre questi insiste sul fatto che i discepoli avrebbero potuto tutt’al più “fabbricare” per il loro maestro una risurrezione escatologica, un ritorno nella gloria alla fine dei tempi, padre Livio di Radio Maria afferma che essi, come dimostrano gli episodi della Maddalena e dei due di Emmaus, non potevano riconoscere il Cristo perché concepivano la risurrezione in modo “carnale”; e proprio per questo non avevano capito i preannunzi fatti da Gesù.

Ma, diciamo noi, se essi avevano una concezione carnale della risurrezione, dovevano comunque aver capito i preannunzi in senso carnale e attendersi, dopo la crocifissione (pure preannunziata), una “risurrezione carnale”, quale avevano visto nel caso di Lazzaro e compagni.

E ciò smentisce la tesi di Messori e di chi la pensa come lui, secondo la quale invece gli apostoli non si attendevano una risurrezione di nessun genere.

 

 

L’ingannevole criterio dell’ “evidenza” 

 

Se per l’affermarsi della fede nella risurrezione di Gesù in un contesto culturale presentato come proibitivo era necessaria, si sostiene, l’evidenza indiscutibile del fatto prodigioso, sorge un problema di capitale importanza: come si spiega che le migliaia, e ben presto le decine e forse centinaia di migliaia di nuovi adepti, che pure vivevano nel medesimo clima culturale, credettero sulla base di un semplice passaparola, senza aver visto Cristo risorto?

A Pentecoste, secondo gli “Atti degli apostoli”, basta che Pietro dica “Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni” (At 2, 32) perché tremila persone gli credano seduta stante e passino alla fede, senza chiedere alcuna prova.

Se si obietta che ciò avvenne in virtù del miracolo della Pentecoste che tutti avevano percepito, udendo il fragore e sentendo parlare ciascuno nella propria lingua, è facile rispondere in primo luogo che questo significa ricorrere a un altro miracolo, che non è più quello delle apparizioni pasquali. E, in ogni caso, rimane il fatto decisivo che tutte le successive conversioni dovettero pur avvenire senza il supporto di alcun miracolo.

 

Di conseguenza, quel big bang costituito dalle apparizioni pasquali che si afferma necessario per spiegare il sorgere della fede nei discepoli - data l’asserita refrattarietà dell’ambiente culturale giudaico al messaggio cristiano - avrebbe dovuto rinnovarsi ad ogni conversione.

Tanto più che i nuovi credenti non avevano, per la loro fede, neppure il supporto degli innumerevoli prodigiosi “segni” che durante la vita di Gesù erano invece stati offerti ai discepoli, e in particolare agli apostoli, o almeno ad alcuni di loro (come nel caso della Trasfigurazione).

Siamo quindi di fronte a una clamorosa contraddizione in termini: il rapido diffondersi della fede nel Cristo risorto smentisce proprio il  principio che viene addotto per autenticare l’origine della fede stessa.

 

Le migliaia che si convertono a Pentecoste senza neppure chiedere prove né indizi dell’avvenuta resurrezione del Dio – o comunque del Messia – crocifisso stanno a dimostrare inoppugnabilmente che in loro, benché uomini di autentica cultura e osservanza giudaica, erano già pienamente operanti tutti i presupposti necessari per indurli ad aderire alla prospettiva “rivoluzionaria” che veniva loro dischiusa.

Lungi dal trovare un terreno ostile, come vorrebbero far credere Messori e C., i germi della nuova fede incontravano persino in numerosi Giudei un terreno mirabilmente preparato ad accoglierli, pur senza il big bang, senza il “razzo vettore” (per usare una metafora di R. Latourelle) costituito dall’esperienza diretta del Cristo risuscitato. Nessuno pertanto può escludere che tale fosse anche la condizione dei discepoli, o almeno di alcuni di loro.

 

Non sarà quindi necessario pensare a un’ “allucinazione collettiva”, ovviamente più difficile da spiegare (per quanto il mondo delle sette, oggi come nei secoli passati, offra non pochi esempi del genere): basta che la supposta “allucinazione”, ossia l’esperienza soggettiva dell’apparizione del Risorto, abbia toccato anche un solo discepolo; la sua “condivisione” da parte degli altri può essere avvenuta con le stesse modalità con cui tale esperienza fu poi recepita dalle anime via via conquistate alla nuova fede.

Vedremo tra poco, parlando della “questione dei preannunzi”, che gli apostoli dovevano essere “predisposti” a vivere un’emozione del genere. D’altra parte, non riteniamo che tocchi a noi suggerire quale può essere stato il percorso che ha condotto gli Undici e gli altri discepoli alla fede pasquale, come meglio preciseremo in seguito (v. L’onere della prova).

 

Per concludere su questo punto: il principio logico-psicologico che regge l’ “argomento principe” è di per sé poco adatto a spiegare il sorgere di una fede diffusa.

Può spiegare la nascita di un’aspettativa all’interno di una setta, o comunque di una cerchia ristretta di adepti, i quali abbiano tutti condiviso l’esperienza “fondante”; ma quando entrano in gioco centinaia e migliaia di “passaggi” successivi, ossia di adesioni alla fede da parte di innumerevoli nuovi seguaci che non hanno fruito dell’evidenza di quella prima asserita esperienza, è impossibile non ammettere in loro una qualche “predisposizione”.

Predisposizione che, essendo presente nella cultura a cui essi appartengono, non può quindi essere esclusa neppure per coloro – nel nostro caso i discepoli - che si afferma abbiano aderito al nuovo credo solo in forza di un’esperienza traumatica, tale da costringerli ad abbandonare dei principi radicati in una tradizione plurisecolare.

 

Detto questo (che è quanto più conta agli affetti della nostra argomentazione), non abbiamo difficoltà ad ammettere che la tradizione ebraica rendeva obiettivamente difficile - non però impossibile! - l’accettazione del kérygma.

Non può quindi meravigliare che la maggioranza del popolo ebraico non si sia convertita alla nuova fede.

 

 

“Follia per i pagani”? 

 

Fin qui abbiamo contestato che l’evento pasquale fosse irriducibilmente contrario ad ogni prospettiva giudaica, secondo quanto sostiene l’apologetica.

Ora ci chiediamo: l’argomento della refrattarietà all’annuncio pasquale vale anche per il mondo pagano, come Messori vorrebbe dimostrare insistendo sull’episodio del rifiuto opposto a Paolo dai dotti dell’Areopago di Atene?

 

Il tema è di secondaria importanza nella confutazione dell’ “argomento principe”, in quanto i discepoli di Gesù che lo videro risorto, e di cui si vorrebbe dimostrare l’assoluta refrattarietà al messaggio della croce e della risurrezione, erano giudei, non pagani; ma non sarà inutile fare qualche considerazione per riequilibrare un poco una bilancia dialettica che appare decisamente squilibrata verso l’affermazione di una pretesa incompatibilità tra kérygma cristiano e Weltanschauung  pagana.

Quanto stiamo per dire non contiene assolutamente nulla di originale: ci limitiamo a riproporre con un certo ordine dati risaputi, che pare però siano stati accuratamente ignorati nella ricostruzione offertaci da Messori.

 

A metà del primo secolo, nell’area dell’Impero i bisogni spirituali delle masse non potevano più venire soddisfatti dalla religione ufficiale degli “dèi consenti”, gli abitatori dell’Olimpo.

A dire il vero, le divinità classiche della religione greco-romana, se avevano ispirato le favole dei poeti dando vita a un corpus mitologico di eccezionale ricchezza e vitalità, non avevano però mai risposto compiutamente alle esigenze di una religosità più profonda, che aveva sempre trovato la sua espressione nei culti della religione misterica, rifacentesi ai riti orfici ed eleusini.

A Roma, Augusto aveva cercato di rivitalizzare la religione patria rimettendo in onore le antiche divinità e gli antichi culti rurali latini. Da un lato, dunque, una religiosità diffusa, un crescente bisogno di sacro; dall’altro, una chiara inadeguatezza della religione ufficiale a soddisfarlo.

 

D’altro canto, l’unificazione politica favoriva i contatti culturali, promovendo il sincretismo religioso. In particolare, giungevano dall’oriente i culti solari (Mitra, la coppia Iside/Osiride).

Alcuni di questi miti raccontano della morte del dio e della sua risurrezione, tanto che secondo alcuni sarebbero stati all’origine del “mito” cristiano; ma vi sono elementi che proverebbero esattamente il contrario, cioè che tali miti abbiano subìto l’influenza dell’annuncio cristiano anziché propiziarlo.

A noi preme solo sottolineare che i culti solari avevano l’atout del dio unico, ossia di un modello che tendeva ad imporsi nel clima ecumenico creato dall’impero, soddisfacendo una sempre più forte esigenza di universalismo. Al tempo stesso, sempre più forti si facevano quelle esigenze di interiorità, di soggettività, che da secoli si esprimevano nei culti misterici.

 

Il giudaismo possedeva il dio unico, ma si trattava di un dio troppo legato all’etnia - esigua, per di più - con cui egli, pur essendo dio dell’intero universo, aveva stretto da venti secoli un’alleanza particolare: Israele era in attesa di un messia che lo riscattasse innanzitutto sul piano politico. E anche le visioni escatologiche che nei libri dei profeti prospettavano un futuro di pace per il mondo riunito avevano la loro “sede” designata a Gerusalemme.

Mentre dunque i culti solari sono per loro natura universalistici, in quanto il sole è realtà universale, il monoteismo ebraico non era in alcun modo esportabile.

Oltre a ciò, la religione giudaica, permeata di legalismo formalistico (ripetutamente denunciato proprio da Gesù), mal si prestava anche a soddisfare il bisogno di interiorità.

 

Quando però, con l’annuncio cristiano, questo dio unico noi lo vediamo (1) proclamato dio di tutti i popoli allo stesso titolo, e (2) non astratto e impersonale come il sole, bensì “umanizzato”: un dio personale, un Tu a cui ci si può rivolgere in ogni momento; anzi, meglio ancora, un padre a cui si può dire “Padre nostro, che sei nei cieli” (e che per di più ci ha donato il figlio, sacrificatosi per la nostra salvezza); quando vediamo questo, ci troviamo di fronte a una proposta religiosa seducente, affascinante, irresistibile.

Che nel vuoto spirituale da cui sono oppressi i cuori trova il terreno ideale per attecchire.

 

A ciò va aggiunto il fatto che il cristianesimo è portatore di un messaggio facilmente interpretabile in termini “sociali”.

Al di là di tutte le deformazioni e le strumentalizzazioni che possono essere state operate nel corso di venti secoli - dal pauperismo alle letture marxiste, dalle jacqueries alla teologia della liberazione -, è indubbio che si tratta di un messaggio di speranza per i derelitti, i diseredati, gli “assetati di giustizia”: in ciò sviluppava alcuni spunti del profetismo ebraico, legati alla tematica degli anawim, i “poveri di Yahweh”.

Questo non poteva che favorire la sua rapida diffusione in strati sempre più vasti della società.

 

Concludendo: l’annuncio cristiano riuniva in sé proprio tutti gli elementi atti ad assicurargli un successo travolgente sul mercato del sacro.

 

Ciò soprattutto nel mondo romano. In quello greco vi fu qualche occasionale resistenza a causa di una maggior vitalità delle problematiche filosofiche, ma non certo a livello popolare (su questo punto torneremo tra poco).

Solo nel mondo ebraico fu forte, come era ovvio, l’opposizione a un kérygma tanto difforme dalle attese messianiche; a convertirsi fu quindi una minoranza, per quanto piuttosto consistente.

 

Stando così le cose, appare insostenibile la tesi di un’assoluta incompatibilità del verbo cristiano con i presupposti culturali del mondo in cui si diffuse; sicché, per spiegare tale diffusione, definita dallo stesso Guignebert “il più bizzarro dei miracoli”, non pare affatto necessario ipotizzare un evento soprannaturale quale la Risurrezione.

 

Il problema infatti non è spiegare “come mai l’oscuro maestro si è mutato in figlio di Dio, oggetto inesauribile del culto e della teologia cristiana” (e del resto, abbiamo visto, l’apparizione a qualche decina di persone non spiega niente).

Il fatto è che, anche per l’impatto del cristianesimo col mondo pagano, come già abbiamo visto per i suoi rapporti con la cultura giudaica, ci troviamo di fronte a una svolta (in virtù della discontinuità già citata), a un mutamento radicale di prospettiva, per l’azione combinata delle intuizioni di Gesù e dell’elaborazione teologica di qualcuno che, interpretando genialmente le esigenze dei tempi, ha trovato gli strumenti concettuali idonei ad assicurare il trionfo del nuovo messaggio in un terreno di per sé ben disposto ad accoglierlo.

 

Banalizzando, potremmo dire: “gli uomini giusti e le idee giuste al momento giusto”.

Che è poi quanto accadde, altrettanto “prodigiosamente”, non solo per un Budda e un Maometto; ma anche, nel suo piccolo, per un uomo come Hitler, che nel giro di un lustro trasformò una nazione psicologicamente ed economicamente depressa (oltre che avviata alla democrazia) in un popolo compatto e determinato, in una macchina da guerra capace di fare un sol boccone dell’Europa centro-occidentale.

 

Per quanto riguarda il cristianesimo, abbiamo già accennato a Paolo. Non si enfatizza a sproposito il suo ruolo nella nascita del cristianesimo.

Basta ricordare un fatto obiettivo, quasi mai sottolineato: senza neppure citare una sola parola di Gesù (salvo la formula della consacrazione eucaristica), egli ci fornisce, prima ancora che comincino a circolare i Vangeli quali noi li conosciamo, una sua versione del kérygma già compiutamente interpretato alla luce della dottrina del peccato originale.

Non nutriamo alcuna simpatia per le ipotesi della “scuola mitologica”, che vanifica la realtà storica di Gesù, riducendo la sua figura ad un mito; ma dobbiamo ribadire che anche nell’ipotesi (pura ipotesi di lavoro, ripetiamo) che tutto - di Gesù e del suo messaggio - fosse stato inventato, questo messaggio era comunque in se stesso tale da imporsi alla coscienza delle moltitudini di quel tempo (e di tanti secoli a venire).

 

Torniamo così ad affermare quanto avevamo detto all’inizio, circa la distinzione tra la nascita dell’annunzio e la sua diffusione: quel che occorre considerare, per spiegare il rapido imporsi del cristianesimo, è unicamente il grado di conformità dei suoi contenuti alle esigenze spirituali di chi era destinato ad accoglierlo (direi addirittura che è una contraddizione in termini affermare che una fede si diffonde in assenza dell’humus culturale propizio: la sua diffusione – purché non imposta dall’alto, s’intende, ma spontanea, quale fu appunto quella del cristianesimo - dimostra di per sé l’esistenza di tale humus).

È invece irrilevante, ai fini del nostro discorso (pur restando in sé, ovviamente, questione di grande interesse storico), il modo in cui l’annuncio sia nato; in particolare, non è per nulla necessario presupporre alla sua origine un evento soprannaturale.

 

Dobbiamo ancora una precisazione circa i rapporti tra cristianesimo e filosofia.

È chiaro che i problemi maggiori per la diffusione tra i pagani del messaggio cristiano nella sua sistemazione paolino-giovannea vennero dal mondo greco. La tradizione filosofica della Grecia era ben altra cosa rispetto a quella romana, recentissima e per di più foggiata su modelli mutuati appunto dalla cultura ellenica.

Dopo le difficoltà incontrate da Paolo ad Atene, il cristianesimo dovette confrontarsi con il docetismo, la gnosi, le eresie cristologiche e trinitarie, tutti movimenti di pensiero nati in seno all’ellenismo.

Del resto, i rapporti tra cristianesimo e filosofia son sempre stati in qualche misura conflittuali; appianatosi il conflitto grazie alla sistemazione tomistica del XIII secolo, essi tornarono ben presto a farsi tesi al principio dell’età moderna, con Cartesio, Bruno, Spinoza, sino agli illuministi; per finire con quell’ennesimo tentativo di conciliazione che vorrebbe essere la “Fides et Ratio”.

 

Ma, come si è detto, sarebbe errato vedere in queste resistenze del pensiero filosofico un reale ostacolo alla diffusione popolare della nuova fede.

È certo facile sottolineare, come fa Messori, l’insuccesso di Paolo nell’Areopago di Atene, insuccesso dovuto proprio alla refrattarietà del suo auditorio alla tematica della risurrezione; ma tutto l’episodio diviene ben poca cosa se si considera che proprio nello stesso tempo, in quella stessa Grecia, spuntavano come funghi le prime comunità cristiane.

Che mostravano, certo, in alcuni loro membri, qualche difficoltà ad accettare sui due piedi la sconvolgente prospettiva del dio crocifisso e risorto; ma tutto sommato rivelavano, con la loro precoce vitalità, come il loro milieu culturale fosse tutt’altro che impermeabile al nuovo credo.

 

Forse alla base di questa distorsione storiografica sta la tendenza a dar troppo peso ai fenomeni culturali di vertice. Un’accolta di intellettuali, quale era l’Areopago, era probabilmente poco rappresentativa di quelli che erano il sentire profondo e le esigenze spirituali di vasti strati della società ellenistica e, più ancora, di quella romana.

Noi abbiamo la tendenza a rifarci all’episteme platonica e arisotelica, se non altro per il fatto che essa è stata consegnata a un voluminoso corpus di scritti che possiamo sottoporre a un’analisi minuziosa; e in tal modo trascuriamo la doxa.

In realtà, il proliferare, nel neocostituito impero, di culti disparati - di tendenza prevalentemente esoterica - dimostra quanto lontana fosse la Weltanschauung popolare, anche nella stessa Grecia, dalla razionalità della grande filosofia ellenica.

 

Tre secoli più tardi ritroveremo gli epigoni dei sapienti dell’Areopago negli intellettuali stretti attorno a Giuliano l’Apostata; e loro alleato, su una linea di conservatorismo religioso, sarà paradossalmente il mondo rurale dei pagi, “reazionariamente” fedele a quella religione della terra che abbiamo visto a suo tempo rivitalizzata, per non dire riesumata, dall’accorta politica di Augusto.

Ma le masse urbanizzate avranno già da tempo adottato le nuove categorie della redenzione attraverso la croce.

 

In sostanza: il verbo cristiano, “scandalo per i giudei”, “follia per i pagani”, dimostrò alla prova dei fatti di trovare una certa accoglienza presso i primi e un successo entusiastico presso i secondi.

E ciò benché nessuno dei nuovi adepti, ripetiamo, avesse vissuto in prima persona l’esperienza del Messia risuscitato.

 

 

Abbiamo indugiato con queste puntualizzazioni di ordine storico perché Messori dedica la maggior parte del suo libro proprio a simili disquisizioni di “storia delle idee”, nella speranza di poter dimostrare i suoi assunti mediante asserzioni astratte convalidate da autorità altamente referenziate, evitando il più possibile il confonto coi testi.

Ci è sembrato opportuno mostrare che anche considerazioni di storia culturale, attente però a fenomeni trascurati da Messori nella sua ricostruzione, possono portare a conclusioni assai diverse dalle sue.

 

 

Possiamo ora ricapitolare schematicamente quanto abbiamo sin qui detto per confutare l’ “argomento principe dell’apologetica pasquale”.

 

Abbiamo preso in esame due affermazioni, secondo cui:

 

1) sia pure per ragioni culturali diverse, l’humus culturale tanto della Palestina quanto del mondo greco-romano sarebbe stato assolutamente incompatibile col messaggio cristiano;

2) di conseguenza, l’affermazione del cristianesimo potrebbe venire spiegata unicamente con l’intervento di un fatto soprannaturale, quale dovette essere appunto la risurrezione di Cristo constatata personalmente dai discepoli.

 

Ci sembra di aver dimostrato che:

 

1) l’asserita incompatiblità non sussisteva affatto, per cui l’evento soprannaturale non era necessario;

2) se anche tale incompatibilità vi fosse stata, l’evento prodigioso, in quanto vissuto solo da uno sparuto gruppo di persone, non avrebbe potuto in alcun modo ovviarvi; per cui, in ogni caso, esso non era sufficiente.

 

 

Una clamorosa inverosimiglianza di segno opposto: la questione dei preannunzi

 

Ci resta ora da esaminare l’attendibilità di quell’inverosimiglianza che abbiamo definito di ordine esistenziale, e che costituisce in fondo il nocciolo dell’ “argomento principe dell’apologetica”: la necessità di postulare l’evidenza della Risurrezione per spiegare il repentino passaggio dei discepoli dalla prostrazione del venerdì all’esultanza della domenica.

Abbiamo lasciato per ultimo questo aspetto dell’analisi perché qui la pretesa degli apologeti tocca un tale livello di provocazione, nonché di scorrettezza esegetica, da meritare un discorso particolarmente ampio.

 

Possiamo esprimere come segue il succo della nostra confutazione:

 

Gli apostoli, anziché essere lontanissimi dall’attendersi la risurrezione di Gesù, dovevano essere più che mai preparati a una simile evenienza, in quanto era stata loro ripetutamente preannunziata da Gesù stesso.

 

È chiaro che se le cose stanno in questi termini, la situazione risulta addirittura rovesciata, e tutto l’ “argomento principe” perde ogni significato. 

Acquisterebbe infatti piena legittimità l’ipotesi di quell’ “oscura fermentazione”, di quella “germinazione oscura della profezia ebraica” che Messori evoca come fantasma sbandierato senza fondamento dai negatori delle apparizioni.

 

La questione si presenta in modo molto chiaro: vi furono o non vi furono, da parte di Gesù, questi ripetuti, insistenti, persino dettagliati preannunzi della propria morte e risurrezione? La risposta è facile: dai Vangeli risulta che vi furono.

Allora il quesito si sposta: anche se i Vangeli li riportano, è possibile ignorarli, comportarsi cioè come se non fossero mai stati proferiti? E a questo punto l’apologetica, non potendo tirarsi indietro, osa rispondere di sì, osa dire cioè che di tutti questi passi non si deve praticamente tener conto.

Vediamo ora da vicino con quali sottigliezze si pretende di avvalorare tale incredibile pretesa.

 

 

La tesi della “non centralità” dei preannunzi

 

La categoria concettuale con cui si cerca di “neutralizzare” i passi in questione è quella della “non centralità”: i preannunzi della morte e della risurrezione, si dice, figurano sì nei Vangeli, ma non occupano un posto “centrale” nella predicazione di Gesù.

Ecco, dunque, il nocciolo della “pretesa”: se noi riteniamo, a nostro insindacabile giudizio, che qualcosa che Gesù ha detto e magari ripetuto fino alla noia non vada considerato il “centro” della sua predicazione, possiamo, se ciò serve ai nostri fini apologetici, far conto che Gesù non l’abbia mai detto. Sicché si dovrebbe dedurre che va tenuto in considerazione solo e soltanto ciò che Gesù, sempre a nostro insindacabile giudizio, ha posto chiaramente “al centro” della sua predicazione.

Nel nostro caso il problema, dice Messori, sarebbe dunque quello di capire i motivi dello “spostamento (inspiegabile senza uno choc straordinario) dalla periferia al centro di un tema che l’ebraismo non conosceva o conosceva appena per vaghi accenni” (DCR 64).

 

Questa della “non centralità” delle predizioni della risurrezione da parte di Gesù non è ovviamente un’invenzione di Messori. Ancor più sfacciata, se possibile, è la trattazione (meglio sarebbe dire la “liquidazione”) del tema, ad esempio, nell’opera classica di B. Rigaux, “Dio l’ha risuscitato”:

“Comparato ad altri  insegnamenti, quello della risurrezione non occupa il posto centrale che nella tradizione giudaica e cristiana tengono la predicazione sul compimento dei tempi, il regno, il Figlio dell’uomo, l’insegnamento delle parabole, il profeta taumaturgo, l’azione dei demoni, l’angelologia” (p. 66).

 

Messori fa solo un rapidissimo accenno ai tre preannunzi per così dire “canonici” (ignorando i numerosi altri), e dice che in Luca vi è la predizione della morte ma non quella della risurrezione (il che è vero solo per un caso): cerca insomma di mettere in vetrina quel poco o nulla che è riuscito a raccogliere per puntellare la tesi della “non centralità” dei preannunzi.

E arriva a scrivere: “Non si può accentuare l’evidenza e l’importanza di queste predizioni nel ministero di Gesù. Una tale predizione, se chiara e netta, mal si adatta all’atteggiamento dei discepoli nel corso della passione, senza parlare dell’angoscia di Gesù stesso, al Getsemani”.

 

Si tratta di affermazioni senz’altro ardite, su cui conviene indugiare un momento perché sono straordinariamente illuminanti circa i metodi disinvolti dell’apologetica.

In sostanza, si dice che, dato che una certa predizione, se chiara e netta come appare nei testi, contrasta con quanto ci viene poi detto nel Vangelo, si deve dedurre che non fu chiara e netta.

Cioè, di fronte a due dati evangelici tra loro chiaramente contraddittori, anziché ammettere la contraddizione (con le conseguenze che ne derivano per l'affidabilità dei testi), si afferma che “non si deve accentuare” (ossia: si deve ridimensionare sino ad annullarla) una delle due informazioni contrastanti (naturalmente, quella più scomoda).

Ma soprattutto si giunge a dire che le predizioni della risurrezione contraddicono all’angoscia mortale di Gesù nel Getsemani.

 

Qui si spalanca addirittura una voragine, sotto il profilo teologico; e l’autore pare non riflettere sul fatto che, se la consapevolezza dell’imminente risurrezione rende assurda l’angoscia di Gesù di fronte alla morte, tale assurdità non si elimina certo ridimensionando gli enunciati delle sue predizioni al riguardo, poiché la consapevolezza di Gesù era comunque indipendente da quanto egli potesse aver rivelato ad altri circa il futuro che l’attendeva, e indipendente in ogni caso da quanto costoro potessero aver capito delle sue rivelazioni.

Ma spesso un apologeta non si preoccupa dei disastri che produce con le sue strategie difensive: bada a risolvere il suo problema immediato, glissando su tutto il resto, e sperando naturalmente che i lettori non se n’accorgano.

 

D’altra parte, la drastica sottovalutazione dei preannunzi di risurrezione sembra essere ormai pacifica nell’esegesi, quasi senza che se ne debba fornire spiegazione: F. G. Brambilla ha raccolto in un libro le sue considerazioni intorno a quanto recentemente prodotto dalla saggistica tedesca sul tema della risurrezione di Gesù, e i preannunzi, nell’opera sua e nelle numerose altre che cita, hanno il ruolo di cenerentola.

 

Ma torniamo a Messori. Egli si muove con molta cautela – sembra che cammini sulle uova – nel ridimensionare i preannunzi pasquali. I verbi “sembrare” e “parere” la fanno da padroni:

“Questa risurrezione … non sembra essere un tema centrale nella predicazione di Gesù stesso, almeno come i vangeli ce lo presentano” (DCR 65).

“Da molti altri indizi risulta che l’annuncio della sua vittoria sulla morte non sembra essere stato centrale nella predicazione di Gesù” (è strano che qualcosa “risulti non sembrare”: spia dell’imbarazzo di Messori, che di regola scrive in modo cristallino ed efficace);

“da quel che sappiamo, dunque, pare proprio che l’annuncio di risurrezione non sia stato affatto colto come al centro della predicazione del Nazareno”.

 

E quando si  è costretti ad ammettere quel che non può assolutamente venir negato, si minimizza per quanto possibile (evidenziamo col corsivo i termini chiave):

“Certo, i vangeli sinottici riferiscono di tre occasioni in cui il Maestro avrebbe predetto non solo la condanna a morte, ma anche il ritorno dai morti. Tutte e tre le volte le parole attribuitegli sono poche e hanno lo stesso schema” (p. 66);

“nelle poche altre volte in cui i vangeli dicono che Gesù ha accennato al suo risorgere, lo fanno sempre in modo enigmatico, non esplicito; e tale da essere capito pienamente solo ‘dopo’” (pp. 66-67).

 

Abbiamo qui una vera e propria collezione di bugie e mezze bugie. Infatti:

le occasioni in cui Gesù predisse la propria risurrezione furono ben più di tre;

che egli abbia fatto questo non è ipotesi stravagante di incorreggibili miscredenti: egli l’ha fatto;

in alcuni casi la predizione è esauriente, dettagliata;

lungi dal limitarsi ad accennare alla propria risurrezione, spesso il Cristo ne parla in modo assolutamente esplicito;

se le affermazioni in questione siano state abusivamente attribuite a Gesù è tutto da dimostrare, e lo vedremo tra poco;

è di capitale importanza l’ammissione che le predizioni potevano comunque venire capite soltanto “dopo”.

 

In conclusione, Messori, costretto ad ammettere l’imbarazzante realtà dei preannunzi, afferma che

(a) furono pochi;

(b) non furono chiari;

(c) furono fatti quasi in segreto, come confidenze occasionali a qualche apostolo.

 

Si tratta di asserzioni che non rispondono al vero. Ci proponiamo di confutarle esaminandole ordinatamente.

 

a) Non è vero che i preannunzi della Risurrezione furono pochi

 

È giunto il momento di fare un elenco di tali preannunzi. Cominciamo da quelli che vengono abitualmente chiamati dall’esegesi “primo, secondo, terzo annuncio della passione”, di regola accompagnati dall’annuncio della risurrezione (la CEI, di cui qui seguiamo il testo nell’ultima edizione del 1997, li chiama “annunci della morte e della risurrezione”):

 

1) Mt 16, 21: “Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno”.

 

2) Quasi identico è il passo parallelo di Mc 8, 31-32: “E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire  ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Gesù faceva questo discorso apertamente”.

Si noti che entrambi i passi lasciano intendere che siamo di fronte non ad una esternazione occasionale da parte di Gesù, ma ad una prassi consueta: “da allora cominciò a dire…; cominciò a insegnare …

 

3) In Luca (9, 22) leggiamo: “Il Figlio dell’uomo, disse, deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno”.

 

Il “secondo annuncio” lo troviamo in:

 

4) Mt 17, 22-23: “Mentre si trovavano insieme in Galilea, Gesù disse loro: ‘Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma il terzo giorno risorgerà’. Ed essi furono molto rattristati”.

 

5) Mc 9, 31-32: “Istruiva [si noti ancora una forma verbale che suggerisce un’azione ripetuta] infatti i suoi discepoli e diceva loro: ‘Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà’. Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo”.

 

6) Lc 9, 43-45: “Mentre tutti erano ammirati di tutte le cose che faceva, disse ai suoi discepoli: ‘Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per esser consegnato in mano agli uomini’. Essi però non capivano queste parole: restavano per loro così misteriose che non ne coglievano il senso e avevano timore di interrogarlo su tale argomento”.

Come si vede, in questo caso (ma solo in questo) il passo di Luca parla della Passione ma non della Risurrezione.

 

Ed ecco il “terzo annuncio”:

 

7) Mt 20, 17-19: “Mentre saliva a Gerusalemme, Gesù prese in disparte i dodici discepoli e lungo il cammino disse loro: ‘Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso e il terzo giorno risorgerà’”.

 

8) Mc 10, 32-34: “Mentre erano in viaggio per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti. Presi di nuovo in disparte i Dodici, si mise a dire loro quello che stava per accadergli: ‘Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani; lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà’”.

 

9) Lc 18, 31-34: “Poi prese con sé i Dodici e disse loro: ‘Ecco, noi saliamo a Gerusalemme, e si compirà tutto ciò che fu scritto dai profeti riguardo al Figlio dell’uomo: Infatti verrà consegnato ai pagani, verrà deriso e insultato, lo copriranno di sputi e, dopo averlo flagellato, lo uccideranno e il terzo giorno risorgerà’. Ma non compresero nulla di tutto questo; quel parlare restava oscuro per loro e non capivano ciò che egli aveva detto”.

 

Chiarissimo è poi il preannunzio che si ha in Matteo e in Marco subito dopo la Trasfigurazione:

 

10) Mt 17, 9: “Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: ‘Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo sia risorto dai morti’”;

11) Mc 9, 9-10: “Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero per sé la cosa, domandandosi però che cosa volesse dire risorgere dai morti”.

 

Pure chiarissima la predizione fatta da Gesù nel cenacolo, anch’essa riportata, in forma identica, da Matteo e da Marco:

 

12) Mt 26, 32: “…, ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea”.

13) Mc 14, 28: “Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea”.

 

A questi preannunzi sono da affiancare i passi, che già abbiamo avuto modo occasionalmente di considerare, in cui, a risurrezione avvenuta, si fa riferimento ai preannunzi stessi, fatti a suo tempo:

 

14) Mc 16, 7: “Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: ‘Egli vi precede in Galilea’. Là lo vedrete, come vi ha detto’” (Matteo 28 , 7 introduce una variante, forse per precoci motivazioni apologetiche: “... là lo vedrete. Ecco, io ve l’ho detto”).

15) Lc 24, 6-8: “Non è qui, è risorto. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea e diceva: ‘Bisogna che il Figlio dell’uomo sia consegnato in mano ai peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno’. Ed esse si ricordarono delle sue parole …”.

 

Piuttosto chiaro pare anche il seguente passo del quarto vangelo:

 

16) Gv 10, 17-18: “Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso. Ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. […]”.

 

E facilmente interpretabile pare anche quello relativo al famoso “segno di Giona”:

 

17) Mt 12, 40: “Come infatti Giona rimase tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra”.

 

Accanto a questi passi ve n’è qualche altro senza dubbio enigmatico, soprattutto nel quarto vangelo:

 

Gv 2, 19 ss.: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”; ma Gesù “parlava del tempio del suo corpo”, e dopo la risurrezione i discepoli si ricordarono di queste sue parole;

Gv 12, 24: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto”;

Gv 12, 32-33: “‘Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me’. Questo diceva per indicare di qual morte doveva morire”;

Gv 16, 16 ss.: “Un poco, e non mi vedrete più; un poco ancora, e mi vedrete […] Voi ora siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà …”.

 

Dopo l’inventario, qualche considerazione.

Pochi altri aspetti della predicazione di Gesù sono attestati in modo così massiccio e insistente. Ci troviamo di fronte a un complesso imponente di passi che rivelano la cura posta da Gesù nell’avvertire (addirittura “istruire”!) i discepoli circa il suo destino di morte seguita da risurrezione entro tre giorni.

I passi paralleli dei sinottici, anche quando hanno forma pressoché identica, sono importanti - e li abbiamo quindi messi nel numero - in quanto attestano la solidità della tradizione a cui gli evangelisti hanno attinto.

Le allusioni ai preannunzi fatte dopo la Risurrezione sono state considerate perché, pur non essendo predizioni, testimoniano una “coerenza interna” dei racconti evangelici che invano cercheremmo in altri aspetti dei resoconti delle apparizioni pasquali.  

 

b) Non è vero che i preannunzi della Risurrezione non furono chiari

 

La cosa dovrebbe essere risultata evidente dalla lettura stessa dei passi riportati. Quelli che abbiamo numerato (ricordando che in Lc 9, 43-45 figura il preannunzio della sola morte) sono tutti espliciti.

Alcuni preannunzi, primo fra tutti quello riportato ai nn. 7, 8 e 9 (“terzo annuncio”), sono poi talmente dettagliati da far addirittura pensare che se gli apostoli avessero seguito le fasi dell’arresto e del processo di Gesù fino alla crocifissione avrebbero dovuto vedervi una spettacolare conferma del preannunzio ricevuto, e quindi anche dell’imminente risurrezione, che avrebbero dunque potuto attendere serenamente.

In altri termini, passione e morte avrebbero dovuto costituire conferma puntuale del preannunzio, e quindi indurre i discepoli ad attenderne il compimento con la risurrezione.

 

Di più: nel caso del primo annuncio si precisa addirittura che Gesù diceva queste cose “apertamente”.

E sono quanto mai significativi i vari passi in cui si allude all’incomprensione dei discepoli, che giungevano a chiedersi che cosa significasse ‘risorgere dai morti’. Sono significativi perché testimoniano inoppugnabilmente che i discepoli hanno notato il messaggio, l’hanno meditato, sia pure senza riuscire a penetrarlo, e sono quindi nella migliore condizione per comprenderlo non appena accada qualcosa che in qualche modo lo richiami.

 

La loro mente, insomma, non era affatto, circa la prospettiva di una risurrezione del Maestro, quella tabula rasa che ci vorrebbe far credere l’apologetica.

Abbiamo prima riportato l’affermazione di Messori secondo cui Gesù parlava in modo “tale da venir capito pienamente solo ‘dopo’”. Adesso vorremmo una precisazione: dopo la visione del Risorto o semplicemente, come a noi sembra, dopo la sua morte e la scoperta della tomba vuota?

In ogni caso, questa “ammissione” di Messori è già sufficiente per minare le basi dell’ “argomento principe”.

 

Quanto poi alla presunta impossibilità, per i discepoli, di attribuire un significato concreto all’espressione “risorgere dai morti”, ne abbiamo parlato, esprimendo il nostro dissenso, nel paragrafo “La pretesa estraneità della risurrezione alla cultura giudaica”.

Ci limitiamo a ribadire che i giudei mostrano di sapere benissimo che cosa potesse voler dire ‘risorgere dai morti’, e quando chiedono le guardie a Pilato, questi risponde a tono, senza bisogno di domandare chiarimenti: anche lui ha capito in che cosa consiste la risurrezione che i giudei temono di vedere inscenata dai discepoli di Gesù.

Del resto, doveva essere normale attendersi quanto meno una risurrezione (ovvero una “rianimazione”) del tipo di quella di cui avevano fruito, sotto gli occhi dei discepoli stessi, Lazzaro, la figlia di Giairo e il figlio della vedova di Naim.

 

Inoltre, giova ripeterlo, c’è un fatto che taglia la testa al toro: le voci diffuse di una resurrezione del Battista fatto decapitare da Erode, o, in alternativa, del profeta Elia (Mc 6, 14-16 par.).

Inutile quindi stare a sottilizzare sullo statuto del risorto, adducendo motivi per negare la possibilità di un’attesa della risurrezione: l’episodio del Battista dimostra che simili “reincarnazioni”a breve termine erano ritenute possibili dalla mentalità del tempo.

Tutt’al più, si pensava a una certa difficoltà di identificazione del Risorto col defunto, in assenza di una sua esplicita iniziativa per farsi riconoscere (sicché avrebbe potuto risorgere rimanendo … in incognito, come si temeva appunto accadesse per il Battista). Ma questo, guarda caso, è proprio ciò che poi ci mostrano le apparizioni pasquali!

 

Comunque sia, è impossibile non domandarsi: se i preannunzi, che pur si succedevano a ritmo incalzante, non risultavano chiari, perché gli apostoli non chiedevano chiarimenti? E se li trovavano urtanti, perché non reagivano (salvo Pietro, in occasione del primo)?

Quando qualcuno afferma ripetutamente che dopo essere morto risusciterà, o lo si considera pazzo o gli si crede; quanto meno, si comincia a credergli quando si constata che nelle sue predizioni c’era qualcosa di vero. Il che è appunto ciò che potrebbero e dovrebbero aver fatto gli apostoli.

 

c) Non è vero che i preannunzi della Risurrezione furono fatti quasi in segreto, a qualche apostolo soltanto

 

Questo accade solo nell’episodio della Trasfigurazione (l’unico che Messori cita, non a caso); in tutti gli altri passi gli interlocutori di Gesù sono i “discepoli”. E anche quando è forse ragionevole pensare a un uditorio più selezionato, come nel caso del “primo annuncio” (seguito dalla “professione di fede” di Pietro, a Cesarea), non vi è motivo di ritenere che non sia presente il collegio dei Dodici.

Abbiamo poi già menzionato le pie donne, che, dopo aver ricevuto il messaggio dell’angelo presso la tomba vuota, si ricordano della predizione di Gesù che ordinava di precederlo in Galilea dopo la sua risurrezione.

Infine, ovviamente, va considerato che, se tali preannunzi erano cosa risaputa per i farisei, non poteva certo trattarsi di confidenze fatte a pochi intimi.

 

Prima di chiudere il discorso circa la pretesa irrilevanza dei preannunzi di risurrezione, non possiamo fare a meno di citare un autore che, come noi, non ha il minimo dubbio sulla loro realtà e importanza.

È Sabino Palumbieri, che, affrontando il problema all’inizio della dimostrazione della storicità degli eventi pasquali, scrive:

“L’evento della risurrezione fu preparato da Gesù con predizioni precise e ripetute” (sic). E poi: “Nell’ultimo viaggio verso Gerusalemme abbiamo una predizione di Gesù documentatissima [!] dell’evento della sua pasqua”; “Gesù predice la sua risurrezione a tutto il popolo”; “L’evangelista Matteo […] ci tramanda che questa predizione era verosimilmente rimbalzata anche nelle aule del sinedrio”.

 

Come si vede, è precisamente ciò su cui abbiamo insistito noi. Ma perché, si dirà, citare proprio Palumbieri?

Perché è l’autore di un libro (“Cristo risorto leva della storia”) apparso con una lusinghiera prefazione di Messori, il quale dichiarava: “Ho saccheggiato intere pagine, trasferendo, sulle schede del mio archivio di lavoro, intuizioni, studi, citazioni”, e avvertiva: “Indicherò, s’intende, la fonte man mano che utilizzerò quel materiale”.

Ahimé, le pagine sui preannunzi poste da Palumbieri alla base di tutto il suo discorso sulla Risurrezione, Messori, dopo il “saccheggio”, ha evidentemente preferito non “utilizzarle”: ha giudicato più prudente tenerle sigillate nel suo archivio.

A meno che, Dio non voglia, siano finite per errore nel cestino. 

 

 

La tesi di rincalzo: l’ “interpolazione” dei preannunzi 

 

Pensiamo di aver mostrato ad abundantiam l’inconsistenza della tesi della “non centralità” dei preannunzi pasquali.

Ma, in fondo, di tale inconsistenza deve essersi accorto lo stesso Messori, il quale preferisce “irrobustire” la tesi affiancandone ad essa una più radicale: quella della inesistenza dei preannunzi stessi. Questi pretesi preannunzi, dice in sostanza Messori, in realtà non vi furono: fu la prima comunità a metterli in bocca a Gesù, alla luce dell’esperienza pasquale che aveva vissuto.

 

Si capisce immediatamente che si tratta di una tesi assai ardita, che colpisce al cuore il sacro principio dell’inerranza biblica.

L’autore procede perciò in modo assai cauto. Considera uno solo dei passi in questione (il n. 2 del nostro elenco), e, dopo aver osservato che la reazione sdegnata di Pietro non si giustificherebbe se Gesù avesse preannunziato che tre giorni dopo la morte sarebbe risorto, cita il giudizio di Karl Schubert, secondo cui “l’annuncio della risurrezione al versetto 31 deve certamente la sua origine alla fede pasquale nella risurrezione”.

In tal modo Messori non si sbilancia ad affermare che tutti i preannunzi sono interpolazioni successive, e persino per quello di Mc 8, 31 lascia la responsabilità allo studioso che cita; d’altra parte, però, ci informa che lo Schubert è “un credente, un cattolico, abituato a parlare con prudenza di ‘interpolazioni’, di rimaneggiamenti nel testo dei vangeli”.

 

Ci si può fidare, dunque; anzi, circa il fatto che le parole in questione siano state davvero aggiunte “a risurrezione constatata”, Messori dice che “bisogna riconoscere che la maggioranza degli studiosi ne è convinta”. Dal che poi deduce, del tutto arbitrariamente: “Ciò conferma quanto poco, e quanto marginalmente, il Maestro ne abbia parlato ai suoi”.

La tattica dunque è abile: si fa un’affermazione che si ritiene necessaria a suffragio della propria tesi, cercando però di tenersi al riparo delle ricadute negative che essa comporta. Ma è come voler nascondersi dietro un dito: se queste interpolazioni vi sono state, allora vi è stata manipolazione della verità.

 

Va detto chiaramente: le supposte interpolazioni riguardano un tal numero di “annunci” (v. l’elenco sopra riportato), distribuiti in tutt’e quattro i vangeli (comunque in tutti i sinottici) e diversificati nella forma (alcuni sono rievocazioni postpasquali degli annunzi precedenti) da rendere assai improbabile che si tratti realmente di inserzioni compiute a posteriori.

La cosa postulerebbe un eccezionale coordinamento fra tutti gli evangelisti (ovvero, s’intende, fra tutte le tradizioni a cui essi hanno attinto, poiché quando parliamo di manipolazioni presenti nei vangeli non intendiamo necessariamente attribuirle all’iniziativa degli evangelisti: possono essere intervenute in una fase precedente, a un livello inferiore di elaborazione).

In ogni caso, pare trattarsi di un’ipotesi fantascentifica.

 

Ma, ripetiamo, se davvero interpolazione vi è stata, la manipolazione che ne risulta è stata di eccezionale gravità per almeno due buone ragioni:

 

1) una ragione quantitativa: come si è detto, gli annunci in questione sono numerosi, presenti in tutti i vangeli e in forme diverse.

Occorre ribadire che, se sono frutto di inserzione tardiva i preannunzi, devono essere tali anche i riferimenti ad essi fatti dagli angeli alle donne presso il sepolcro vuoto (si trovano in tutt’e tre i sinottici, pur se in Luca si ha una forma diversa allo scopo di preparare l’apparizione di Gesù a Gerusalemme anziché in Galilea). Sicché la manipolazione che si deve immaginare operata sui supposti materiali autentici preesistenti è ancora più massiccia.

Tra l’altro, diventa automaticamente interpolazione anche l’episodio della guardia al sepolcro - la cui autenticità è peraltro difesa a spada tratta proprio da Messori -, dato che i farisei che ne chiedono il dispiegamento allegano esplicitamente preannunzi di risurrezione (presumubilmente pubblici e ripetuti) da parte di Gesù.

Praticamente, si dovrebbe riscrivere una buona fetta dei vangeli;

 

2) una ragione qualitativa: non si tratta di fatti secondari, ma addirittura di parole di Gesù.

Vengono attribuite a Cristo, si afferma, cose che egli in realtà non avrebbe mai detto, e per di più su un tema di importanza capitale, forse il più importante di tutti, quello che costituisce l’evento decisivo della sua missione redentrice: la vittoria sulla morte, pegno di risurrezione per tutti gli uomini.

 

Se è così, dire che gli evangelisti non manipolano i fatti che raccontano, ma si limitano a scegliere, ciascuno secondo i propri criteri, particolari diversi di una medesima realtà, diventa quasi umoristico. Se tutti i versetti che ci interessano sono stati “interpolati” alla luce della fede pasquale, si tratta di una cosa di gravità inaudita, che colpisce al cuore la credibilità dei vangeli.

Non è chiaro fino a che punto se ne renda conto chi avanza simili ipotesi e chi, come Messori, le caldeggia.

 

In ogni caso, è inammissibile, per la metodologia dell’esegesi, il procedimento di sbarazzarsi dei versetti scomodi, nel nostro caso addirittura un paio di dozzine, “cancellandoli” dal testo, ossia dichiarandoli “abusivi”, corpi estranei, presenze indebite nell’autentico messaggio di Gesù.

Fare apologetica con metodi tanto sbrigativi è indubbiamente molto facile. Soprattutto non si può non ritorcere l’accusa contro chi ha avuto il coraggio di scrivere, parlando dell’esegesi di M. Goguel, che questi di fronte alle difficoltà “preferisce la via più comoda dell’eliminarle, espellendo dai testi, senza tanti complimenti, quel che non quadra con la teoria” (p. 111). Da che pulpito viene la predica!

 

D’altra parte, come già si è accennato parlando della “non centralità” dei preannunzi di Risurrezione, è opinione diffusissima fra i biblisti che queste esternazioni di Gesù costituiscano proprio uno dei settori in cui più fortemente la comunità primitiva ha plasmato il suo messaggio in funzione delle esigenze della catechesi.

Scrive ad esempio B. Rigaux: « Gli esegeti che mantengono l’autenticità [sic!] delle predizioni sulla risurrezione ammettono facilmente che esse furono formulate in termini meno espliciti” (p. 66) 

O questi preanunzi dunque non ci furono, dice lo studioso, o, se ci furono, non furono sufficientemente chiari. Messori quindi è in ottima compagnia.

Ma resta il fatto che la disinvoltura esibita da tanti biblisti non può venire accettata quando a parlare è chi ripete in continuazione che i vangeli ci raccontano fedelmente “quanto è realmente successo”.

 

 

Le controverse profezie 

 

Accanto alla questione dei preannunzi si dovrebbe esaminare la questione delle profezie, altro bersaglio su cui si appuntano i sospetti di non pochi critici in quanto possibile origine della fede nella risurrezione di Gesù.

 

Se, come sostengono Messori e molti altri, nella Scrittura le profezie circa la morte e la risurrezione del Cristo non ci sono (e, si dice, i discepoli, come poi gli evangelisti stessi - sconvolti dall’evidenza di una risurrezione cui erano lontanissimi dal pensare - cercano disperatamente di trovarne, anche a prezzo di forzature), allora inoppugnabilmente Gesù bara quando afferma che tali profezie esistono, e i suoi rimproveri a chi non è arrivato a individuarle e/o a capirle sono assurdi e ingiusti.

D’altra parte, se Luca afferma che Gesù stesso le enumera e le spiega tutte una per una, prima ai due di Emmaus e poi agli apostoli riuniti, si dovrebbe intendere che anche secondo l’evangelista queste profezie ci sono, e non si capisce allora perché non le citi.

 

Ennesima gravissima contraddizione dei “racconti pasquali”, sulla quale non intendiamo soffermarci per non allargare ulteriormente un campo d’indagine già tanto vasto.

Comunque, se per sbarazzarsi degli scomodi preannunzi di risurrezione bisogna supporre una loro tardiva inserzione nel racconto evangelico, per sbarazzarsi delle presunte profezie veterotestamentarie (l’altro elemento che potrebbe aver propiziato l’esplosione della fede pasquale) bisogna assolutamente supporre una menzogna da parte di Gesù, poiché Gesù evidentemente non può “essersi sbagliato”.

 

 

Conclusione sull’ “argomento principe”

 

 Al termine della nostra analisi, possiamo concludere che la tesi fondamentale su cui punta l’apologetica per sostenere la storicità della Risurrezione presenta i seguenti punti deboli:

 

1) mira a dimostrare tale storicità per via indiretta, ossia come unico modo per evitare uninverosimiglianza che si avrebbe qualora non si postulasse l’evidenza dell’esperienza viva del Risorto fatta dai discepoli;

 

2) non considera che tale evidenza può aver propiziato l’approdo alla fede solo da parte di un numero ristrettissimo di persone, mentre tutti gli altri convertiti, infinitamente più numerosi, credettero senza fruire di tale esperienza, quindi con modalità che potrebbero benissimo spiegare anche la “conversione” dei discepoli stessi; 

 

3) afferma l’assoluta incompatibilità dell’annuncio pasquale sia con la mentalità giudaica che con quella pagana, ignorando alcune realtà culturali e fattuali ed enfatizzandone indebitamente altre, e soprattutto applicando ai fenomeni spirituali un rigido determinismo;

 

4) rifiuta di vedere che la situazione psicologica in cui si trovavano i discepoli al momento dell’arresto di Gesù doveva in effetti essere tale da configurare un’inverosimiglianza di segno opposto a quella sopra ricordata, qualora si fossero abbandonati alla disperazione; e per giungere a tale rifiuto arriva addirittura a sostenere l’inautenticità di numerosi annunci fatti da Gesù ai discepoli.

 

Bilancio fallimentare, dunque, tesi inconsistente. Se questo è l’ “argomento principe”, vien da dire, figuriamoci gli altri. Che comunque esamineremo tutti, uno per uno.

 

 

 

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