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controapologetica
 
Saturday, 20 April 2024
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                   L’accordo e il disaccordo delle testimonianze

 

 

 

Le testimonianze discordi

 

Tra i numerosi criteri storiografici – normalmente impiegati nella ricerca storica profana – che l’apologetica utilizza per difendere la storicità della Risurrezione, ve n’è uno che viene continuamente riproposto, sia in sede teorica che nelle applicazioni concrete. È il cosiddetto criterio della “concordantia discordantium”  (letteralmente: “concordanza dei discordanti”), o “convergenza nelle divergenze” (o “concordanza nella discordanza” e altre simili varianti).

 

Nel caso che ci interessa, potremmo esprimerlo così: “I racconti pasquali dei quattro vangeli, pur presentando una gran quantità di divergenze sui singoli dettagli, concordano nell’essenziale: tutti ci dicono che Gesù è risorto ed è apparso ai discepoli, dopo che la tomba era stata trovata vuota dalle pie donne”.

 

A questa affermazione “difensiva” se ne aggiunge poi una “di attacco”, secondo cui le divergenze, anziché essere motivo di scarsa credibilità dei racconti, accrescerebbero addirittura tale credibilità, in quanto attestanti l’indipendenza delle testimonianze.

Nelle parole di H. Zahrnt, citato da Messori: “Ogni storico sa che, se ha davanti a sé più racconti uguali riguardanti uno stesso evento, gli è lecito nutrire la massima diffidenza. In tal caso, infatti, deve tener conto del fatto che gli autori, molto probabilmente, si sono messi d’accordo o si sono copiati tra loro. Se, al contrario, i racconti sono diversi e divergenti l’uno dall’altro, ciò può essere una testimonianza diretta della reciproca indipendenza degli autori e una testimonianza indiretta della verità, della realtà di ciò che essi raccontano” (p. 77-78).

 

 Ancora più drastico R. Laurentin, nella sua “Vita autentica di Gesù Cristo” (a proposito delle discordanze tra i due “vangeli dell’infanzia”): “Sono i racconti stereotipati che suonano sospetti alle orecchie di giudici e poliziotti: ‘I testimoni si sono passati parola, ripetono le stesse cose’, si dice in simili casi” (pp. 549-50).

E quanto mai reciso è Lagrange, citando Langlois e Seignobos: “La concordanza prova più quando essa è limitata a un piccolo numero di punti”.

 

Siamo di fronte a un criterio metodologico senz’altro valido. Ma che va applicato con una riserva di fondamentale importanza, che l’apologetica invece sistematicamente ignora perché lo renderebbe inapplicabile nei casi che le stanno a cuore: è valido solo a condizione che non vi sia motivo di sospettare nei testimoni un comune interesse ad affermare proprio ciò che costituisce il contenuto su cui concordano.

In tal caso, infatti, le divergenze sugli altri elementi del racconto, anziché essere motivo di credibilità, divengono proprio motivo di inattendibilità.

E quanto all’interesse, esso può andare dalla determinazione a non finire in galera fino a una motivazione in senso lato “ideologica”, e quindi anche apologetica o missionaria.

 

L’esempio più classico che si può portare è quello dell’alibi fornito dalle varie persone sospettate di un certo reato, poniamo una rapina.

Immaginiamo che tutte concordino nel sostenere la loro assenza dal luogo incriminato nel momento dell’assalto alla banca, e che pure concordemente affermino di essersi trovate tutte insieme al cinematografo, salvo discordare però non solo sul titolo, ma addirittura sul genere del film visto: secondo uno un western, per gli altri un giallo, una love-story o un film a luci rosse.

Pensa Laurentin che gli inquirenti apprezzerebbero molto questa “concordantia discordantium”, di testimoni cioè concordi sui punti essenziali e in disaccordo su circostanze secondarie? Pensa veramente che troverebbero tale disaccordo positivo, in quanto attestante che “non si sono passati parola”?

 

Eppure, ragionando com si fa nel caso dei racconti evangelici, si potrebbe dire che le testimonianze concordano sull’essenziale, ossia sul fatto che i quattro non hanno compiuto la rapina e che a quell’ora si tovavano al cinema. Che importanza può avere, per un giudizio di colpevolezza o di innocenza, sapere che film hanno visto?

Orbene, si torna a chiedere: quale giudice - o quale persona dotata di normale buon senso – potrà, di fronte alle “divergenze di dettaglio” di cui si è detto, prendere per buono l’alibi dei quattro?

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Nessuno, penso. L’evidente menzogna, di alcuni o di tutti, circa un “particolare” che non può essere stato dimenticato o deformato nel ricordo, nega attendibilità alle deposizioni degli indagati. La testimonianza mendace squalifica il testimone, anche se verte su aspetti relativamente secondari della vicenda.

E si badi che nel caso dei racconti pasquali un atteggiamento pregiudiziale di diffidenza è obiettivamente assai più giustificato che nel caso dell’indagine sul colpo in banca, poiché l’estraneità dei sopettati alla rapina, a differenza della Risurrezione, non urta contro alcuna legge fisica.

 

Proviamo del resto a rovesciare l’ipotesi fatta sopra: immaginiamo che un giudice debba irrogare una condanna a morte, o all’ergastolo, sulla base di testimonianze fondamentalmente interessate, “di parte”, e concordi come sono quelle degli evangelisti (o dei sospettati di rapina di cui si è detto): concordi cioè sulla “sostanza” (l’imputato ha commesso il crimine per determinati motivi) ma divergenti in numerosi “dettagli” riguardanti le circostanze del delitto. È chiaro che nessun giudice onesto se la sentirà di condannare.

Se a ciò aggiungiamo l’obiettiva “improbabilità” di una risurrezione, l’inattendibilità dei racconti pasquali diviene altissima. 

 

Il caso vuole che una clamorosa conferma “applicata” di quanto stiamo dicendo ce la offra proprio la Bibbia, nel famoso episodio di Susanna che figura nelle aggiunte in lingua greca al libro di Daniele.

I due “vecchioni”, per vendicarsi della donna che li ha respinti, affermano di averla sorpresa in flagrante adulterio nel giardino. Daniele, sollevando l’entusiasmo generale, trova modo di smascherare i due calunniatori mostrando che essi, concordi sull’ “essenziale” - ossia sul fatto di aver assistito all’adulterio – discordano però su un particolare, il tipo di pianta sotto cui la scena si sarebbe svolta.

Poiché l’accordo tra i due sedicenti testimoni verte su un punto che costituisce un loro interesse comune, viene considerato irrilevante di fronte al disaccordo su un dettaglio in sé poco significativo, ma giudicato rivelatore dell’inattendibilità della testimonianza.

 

Ecco dunque a che si riduce il tanto vantato criterio della “convergenza nelle divergenze”. Proprio i gialli di cui la TV ci gratifica quotidianamente ci assicurano che nella realtà giudici e poliziotti si comportano come Daniele, ossia in modo opposto a come vorrebbe farci credere Laurentin: sono oltremodo diffidenti di fronte a divergenze, anche di dettaglio, nelle varie versioni di uno stesso alibi (di indagati accomunati dall’interesse a mentire) qualora si tratti di dettagli che, benché marginali nell’economia della vicenda, non possono essere stati dimenticati da chi ne è stato protagonista.

E per quanto riguarda i racconti evangelici non è neppure il caso di ricordare che gli autori hanno in comune un preciso intereresse: affermare il kérygma, annunciare che Cristo è risorto.

 

Stando così le cose, la metafora stessa della “convergenza”, che fa pensare a un punto di arrivo, risulta inappropriata, o addirittura fuoviante: gli elementi di accordo sono in realtà l’origine, la base su cui sono stati costruiti i racconti.

Del resto, per quanto riguarda l’applicazione di una metodologia storica, va tenuto conto di una circostanza obiettiva: gli evangelisti appartengono tutti alla stessa parte, sono tutti “schierati”.

Il basilare principio dell’ “audiatur et altera pars”, del sentire l’altra campana, non può venire applicato perché ogni eventuale testimonianza discordante (negante cioè la realtà della Risurrezione) è comunque stata eliminata.

 

È infine opportuno sottolineare che il caso dei racconti pasquali è radicalmente diverso da quello dei resoconti discordi, poniamo, di un incidente stradale o aereo.

L’apologetica si compiace infatti di ricordare quanto le discordanze di dettaglio siano frequenti anche in tali resoconti, di cui è ricca la cronaca quotidiana, benché essi provengano da persone che sono state sicuramente testimoni dei fatti di cui parlano. 

 

Senonché le apparizioni pasquali non furono eventi istantanei, e i testimoni che fondarono la tradizione confluita nei vangeli furono protagonisti degli eventi, non semplici spettatori: gli apostoli avevano sentito con le proprie orecchie quel che aveva detto loro la Maddalena, per cui dovevano sapere se aveva annunciato solo la scoperta della tomba vuota o anche la risurrezione di Gesù; la Maddalena doveva sapere se aveva visto Gesù prima di incontrare gli apostoli o dopo aver recato il primo annuncio; e così via.

Si veda anche quanto si è detto in proposito nei capitoli Lo spontaneo disordine delle testimonianze e La pretesa ineffabilità dell’esperienza.

 

 

Molteplice attestazione. Continuità e discontinuità

 

A questo punto si presenta tutta una nuova serie di problemi. È chiaro infatti che, se dovessimo applicare alla lettera il criterio della “concordantia discordantium”, saremmo costretti a diffidare di tutti quei passi e quegli episodi in cui si ha concordanza perfetta tra gli evangelisti.

Tanto più poi che nei racconti evangelici è presente anche l’altra speculare caratteristica che può essere motivo di diffidenza: la scopiazzatura, il plagio. Il che significa che gli autori ora si contraddicono a vicenda e ora si copiano (ovvero trascrivono da una fonte comune).

Stranamente, invece, questi passi sono di regola ritenuti al di sopra di ogni sospetto, e si afferma addirittura che ciò che si trova in forma pressoché identica in tre o quattro vangeli va considerato per ciò stesso di particolare rilievo teologico.

 

Siamo dunque in presenza di una contraddizione? Neanche per idea, per l’apologetica tutto è sotto controllo: nei casi di perfetta concordanza si fa entrare in azione un altro criterio, specularmente opposto a quello della “convergenza nelle divergenze”.

Si tratta del criterio della “molteplice attestazione”, in virtù del quale un’informazione risulta tanto meglio garantita quante più sono le testimonianze bibliche concordi che ce la trasmettono. In senso stretto, tecnico, si dovrebbe considerare il numero delle fonti indipendenti e/o delle forme letterarie che entrano in gioco; ma in pratica si considera applicabile il principio quando due o più evangelisti ci raccontano la stessa cosa.

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I due criteri, benché intrinsecamente contraddittori, vengono fruttuosamente impiegati in sinergia, sì da arrivare quasi a confondersi nell’applicazione; tanto che uno specialista come F. Lambiasi giunge a chiedersi, a proposito del criterio della “concordia discors”, “fino a che punto questo argomento è identificabile con quello di molteplice attestazione” (“L’autenticità storica dei vangeli”, p. 193).

 

Del resto, accanto al principio della discontinuità (per cui va ritenuto autentico ciò che non può derivare dal patrimonio di idee del giudaismo o della chiesa primitiva) si applica quello opposto della continuità (o conformità, o coerenza: si tende ad accordare maggiore fiducia a quanto appare in accordo con le informazioni che noi possediamo circa un determinato problema).

 

Tutta una burletta, dunque? In via di principio, no: anche in filologia, ad esempio, si può talora impiegare, accanto al criterio della lectio difficilior, quello opposto della lectio facilior.

Ma, ovviamente, la legittimità dell’operazione presuppone che la scelta tra i due criteri avvenga in modo del tutto “disinteressato”, sulla base cioè di criteri squisitamente filologici.

Il che è proprio l’opposto di quanto accade nell’esegesi biblica ortodossa, che ben di rado viene condotta senza dichiarate o latenti motivazioni apologetiche.                           

 

 

Le omissioni e la testimonianza isolata

 

Il fatto che quanto è riferito in modo concorde da più evangelisti abbia per ciò stesso un particolare crisma di attendibilità non può evitare che, di riflesso,  risultino in qualche misura automaticamente “indebolite” le testimonianze reperibili in un solo vangelo.

In alcuni casi, la testimonianza isolata finisce addirittura per essere decisamente “sospetta”.

Vittorio Messori, dopo aver scritto che “ogni vangelo rispecchia la sensibilità, la prospettiva teologica del redattore”, aggiunge: “e non sempre siamo in grado di capire sino in fondo il perché di certe inclusioni e di certe esclusioni” (PSPP 189).

 

Questo definisce il problema che si pone in tutti i casi in cui, in un contesto molto simile, uno o due evangelisti inseriscono qualcosa che gli altri tacciono (ovvero, a prospettiva invertita, tacciono qualcosa che uno o più altri riferiscono).

S’intende che l’elemento “inserito” ovvero “taciuto” deve rivestire una certa importanza, sì che la sua omissione non possa spiegarsi con normali scelte di economia espositiva.

 

Caso tipico e principe di questo tipo è la professione di fede di Pietro a Cesarea e la sua investitura a guida della Chiesa, passo che sta a fondamento del cosisddetto “primato di Pietro”.

Matteo, Marco e Luca procedono di conserva nel riferirci le parole di Gesù in quella circostanza; senonché, a un certo punto, il primo evangelista inserisce un passo famoso, di capitale importanza (“... tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa”), completamente ignorato dagli altri due.

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Altro caso di grande rilievo è quello della presenza di Maria sul Calvario, menzionata dal solo Giovanni e taciuta – anzi, di fatto smentita - dai sinottici (v. L’asserita presenza di Maria sul Calvario”, ne I racconti della Passione).

Non meno importante il caso della Pentecoste, descritta negli “Atti degli apostoli” e in realtà incompatibile con tutti i racconti evangelici salvo che con quello dell’autore degli “Atti”.

 

Per quanto riguarda, di volta in volta, la ragione di queste inclusioni ed omissioni, ci pare che si debba sceglierla tra le seguenti:

 

a) si tratta di parole non dette da Gesù (o, comunque, da colui a cui sono attribuite), ovvero di un fatto non accaduto; quindi siamo di fronte a un’aggiunta abusiva, ossia a una pura e semplice invenzione (dovuta al redattore finale o alle sue fonti);

 

b) si tratta di parole o fatti che uno o più evangelisti tacciono perché li ignorano, non avendoli trovati nelle fonti di cui si sono serviti; questo depone male circa l’accuratezza del lavoro e l’attendibilità di tali fonti;

   

c) si tratta di parole o fatti che uno o più evangelisti omettono deliberatamente perché ritengono più opportuno tacerli (per motivi apologetici, teologici o pastorali).

Siamo quindi di fronte a una forma di censura. Restano poi da stabilire, volta per volta, i motivi della censura.

 

In ogni caso, tutte e tre le ipotesi sono squalificanti per l’inerranza evangelica affermata dalla “Dei Verbum”.

 

Da notare poi che questi casi dimostrano tutta l’inconsistenza e la pretestuosità dell’argomento apologetico che punta su presunte diverse e specifiche esigenze dei destinatari dei vari vangeli.

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Nessuno infatti, pensiamo, vorrà sostenere che solo ai lettori di Matteo interessasse sapere della nomina di Pietro a capo della Chiesa; che solo per i lettori di Giovanni fosse importante il dato della presenza di Maria ai piedi della croce; e che solo i lettori di Luca potessero debitamente apprezzare la spettacolare investitura conferita dallo Spirito Santo ai discepoli in vista della missione evangelizzatrice.

 

 

  

 

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