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Il significato delle apparizioni
La corsa al soprannaturale Dopo aver considerato gli effetti delle apparizioni per la Chiesa, effetti che abbiamo visto largamente negativi, proviamo ad esaminarne il significato per quanto riguarda la religiosità, ossia la manifestazione del “bisogno di sacro” avvertito dall’uomo. Non sono pochi coloro che considerano tutto quanto ruota intorno ai carismi, dalle statue lacrimanti alle apparizioni e alla frequentazione dei santuari, come la componente più viva, e per certi aspetti l’unica ancora veramente vitale, della religiosità cattolica contemporanea. Al limite dell’umoristico, direi, vedere, come fa L. Lombardi Satriani, nell’accorrere delle folle presso la Madonnina lacrimante di Civitavecchia “l’emergere di una crescente carica di dolore” e “il bisogno della gente di sentire la partecipazione del divino alle proprie sofferenze”. La gente infatti accorrerebbe senza dubbio anche se la Madonna ridesse (si direbbe che porta un messaggio di gioia: la croce e la gloria, si sa, sono inscindibili). Solo che è materialmente assai più difficile che una statua rida, alterando i propri lineamenti; e, del resto, uguale potere di richiamo l’hanno le statue e le icone che, anziché lacrime o sangue, trasudano olio. Un intellettuale cattolico particolarmente convinto del grande e positivo significato dell’attuale inarrestabile corsa ai carismi è Vittorio Messori. Egli innanzitutto sottolinea con compiacimento le cifre che testimoniano lo straordinario afflusso ai santuari. Già su questo punto sia consentito avanzare qualche riserva. Premesso che anche i pellegrinaggi medievali non erano privi di aspetti avventurosi e ludici (Chaucer insegna), è fuor di dubbio che in quelli moderni la “componente turistica” gioca un ruolo non insignificante (discorso a parte va fatto ovviamente per i convogli di malati diretti ad esempio a Lourdes). Il pellegrinaggio moderno, fatto con tutti i comfort, non contiene alcun elemento di sacrificio e di rischio per cui possa essere considerato in qualche modo un’ “offerta” a Dio a testimonianza della fede. Potrà in molti casi essere un viaggio alla ricerca della fede, ma resta il fatto che si tratta di una ricerca piuttosto piacevole e accattivante. Un punto su cui Messori insiste è la contrapposizione tra le varie manifestazioni carismatiche da un lato e le omelie e le conferenze dei teologi dall’altro. A parte la discutibile boutade dell’assenza della CNN a queste ultime (perché, forse, presso le statue lacrimanti la CNN ci va per soddisfare esigenze religiose?), va respinta l’identificazione che egli fa tra la contrapposizione suddetta e la contrapposizione cuore/ragione. La gente, egli dice, ha bisogni religiosi profondi che possono trovare appagamento solo se si privilegiano le pascaliane “ragioni del cuore” rispetto alla fredda razionalità; di qui, a suo giudizio, l’accorrere di folle oceaniche sui luoghi delle apparizioni o di altri eventi miracolosi, o comunque eccezionali. Ma si sbaglia. Per i più (non per tutti, certo) la molla principale è un bisogno di stimolante novità. Quel che attira è la religione spettacolo (4 milioni in piazza a Manila: per le Filippine la visita papale è l’evento del secolo); è il sensazionalismo (l’odor di miracolo almeno, se non il miracolo con tutti i crismi ufficiali; e se a sparger lacrime fosse la Sirenetta di Copenhagen, o il Mannekempis, o la Gioconda del Louvre, l’afflusso di visitatori non sarebbe inferiore); è il presenzialismo, il gusto di poter dire “io c’ero”, “io l’ho visto”; è, ripetiamo, la valenza turistica del pellegrinaggio, per cui, abbiamo visto, nella Chiesa molte voci autorevoli si levano per deplorare il “turismo delle apparizioni”; è il desiderio di emozioni forti (se ne ha sempre più bisogno: vedi i safari con rischi reali, il rafting e il canoing in luoghi selvaggi, lo sci fuori pista, gli “sport estremi” in genere, l’attrazione dello “sballo” e di tutto ciò che produce le fatidiche scariche di adrenalina; e l’emozione che si prova nell’atmosfera di un santuario gremito di folla può essere intensissima, come ci mostrava già la “visita al Santuario” del “Trionfo della morte” di D’Annunzio, sia pur caricata e caricaturale quanto si voglia. Del resto, è proprio la tensione della fede spinta al parossismo che propizia il miracolo; e il percepire, sia pure dall’esterno, tale tensione costituisce un’emozione vivissima, in certo senso unica). Se si trattasse, come pensa Messori, di profonda autentica religiosità “del cuore”, basterebbe sostituire le omelie e le conferenze dei teologi con la lettura ispirata di pagine di san Giovanni della Croce o di santa Teresa d’Avila, o magari dello stesso Pascal: ma crede Messori che così si riempirebbero le chiese? Del resto, la Messa, ormai tanto disertata, è forse una manifestazione di religiosità che parla alla ragione anziché al cuore? Ed è forse tale l’adorazione del Santissimo Sacramento, ormai pressoché ignorata dai fedeli? E certe statue della Vergine nascoste nella penombra di tante chiesette di città e di sperduti villaggi, perché non invogliano a un raccoglimento devoto che potrebbe benissimo appagare il bisogno di interiorità dei credenti? Ma è chiaro: queste son cose troppo consuete, che troppo sanno di routine, di ovvio e di quotidiano. La routine: ecco il grande nemico dell’uomo d’oggi. Tutto ciò che si fa, anche per motivazioni in sé valide e rispettabili, deve contenere qualche elemento di novità, deve avere il pepe dell’imprevisto, dev’essere in qualche modo “stimolante”, deve risultare un’ “esperienza” (possibilmente da raccontare). Sicché una statua quale è quella di Civitavecchia, proveniente da Medjugorje e comparsa in TV per i suoi straordinari exploit, appare particolarmente attraente (vorrei dire eccitante). È, tutto questo, autentica religiosità? C’è non poco da dubitarne. Certo non è tutt’oro quel che luce. Laurentin parla di “un risveglio religioso che non segue, ahimé, il risveglio della fede. Il nostro è un tempo di nuova religiosità senza fede sufficiente” (AV 14; corsivi nel testo). E don Stenico ammette: “C’è un ritorno del sacro, che non sempre è un ritorno della fede” (v. NA 47). In effetti, pare che per molti questa corsa al sacro non sia che una versione cattolica della corsa al mago. Quanto meno, diciamo che vi è quella “gola spirituale” che la Chiesa denuncia ovunque noti una smodata ricerca di gratificazione prodotta da manifestazioni carismatiche. Carismi e sacramenti Il discorso può essere approfondito in chiave squisitamente teologica. Il fatto che tanti fedeli sentano il bisogno di “toccare”, per quanto possibile, il Dio trascendente attraverso la mediazione di un carismatico dimostra, tra l’altro, che la comunicazione sacramentale (cioè mediante il segno visibile di una realtà invisibile), quale è in primis l’eucarestia, non soddisfa – o non soddisfa più – il bisogno profondo del credente di sentirsi in contatto col divino. Messori, che tanto insiste su questo aspetto dirompente dell’odierna fenomenologia del sacro, rivendicandone la piena legittimità (contro i teologi, i curialisti, i biblisti, i sociologi, gli psicologi …), pare non aver colto il velen dell’argomento, ossia la sfiducia, la frustrazione crescente che molti fedeli avvertono per quelle forme di approccio al divino che egli pur tanto esalta (“il Dio che si lascia mangiare” di cui parla in “Scommessa sulla morte”, dove accenna con grande intensità di linguaggio al mistero eucaristico dell’adorazione del Santissimo Sacramento). Se veramente il fedele, nel profondo, percepisse di aver assunto nell’eucarestia corpo, sangue, anima e divinità del Cristo, non sentirebbe il bisogno di andare a cercarli altrove. Molti evidentemente “non trovano” Gesù nell’ostia consacrata; e pensano di trovarlo invece standosene a bersi con gli occhi l’estasi di qualche veggente esibita in diretta. Non vedono Gesù né la Madonna, ma almeno vedono in tempo reale il veggente che li vede, o dice di vederli. Oppure vedono almeno una madonnina che ha pianto, se non arrivano in tempo a vederla mentre piange. Anche questo, a quanto pare, per molti è pur sempre più convincente e gratificante dell’ostia in cui Dio si cela, si tiene “nascosto”, sotto la forma sacramentale del pane eucaristico. Questa fame di sacro “vissuto”, incarnato, palpabile, non è quindi sospetta solo per il desiderio di spettacolarità e di sensazionalismo che rivela; ma getta una luce assai ambigua sull’effettiva adesione di tanti “credenti” alle forme canoniche, e quindi in fondo alla sostanza stessa, al “sangue” della religione cattolica. Più in generale, la ricerca da parte dei fedeli di “un Dio da toccare” (NA 58), ricerca considerata da Messori pienamente legittima, contraddice frontalmente la tradizionale tesi apologetica del Dio che si tiene “nascosto” per non imporsi con la propria evidenza alla coscienza del potenziale credente e lasciargli così la possibilità di un rifiuto; tesi che Messori sposa entusiasticamente, proclamando di scommettere su questo Dio che si nasconde. Ma il fedele che vuole toccare Dio mostra chiaramente di non poterne più del Dio nascosto, e riconoscere come legittima tale esigenza significa proprio valutare negativamente la scelta strategica del nascondimento operata da Dio stesso. In ogni caso, la recente enciclica Ecclesia de Eucharestia sembra proprio condannare una per una le “deviazioni” dalla tradizione sacramentale e liturgica: la comunione compiuta con fedeli di altre confessioni cristiane (ecco quindi il veto a certe mode di ispirazione protestante); i tentativi di adattarsi a forme, stili e sensibilità di culture diverse; più in generale, le celebrazioni eucaristiche che in nome della creatività o in opposizione al formalismo non osservino “con grande fedeltà” le norme liturgiche scelte dalla grande tradizione; la disinvolta tendenza a considerare facoltativa la Messa domenicale. E non sarà male riportare l’opinione di una … diretta interessata, ossia la protagonista di una tra le manifestazioni carismatiche maggiormente apprezzate dal “turismo delle apparizioni”. In un messaggio straordinario del 12 novembre 1986 la Madonna di Medjugorje ha ammonito: “Io vi sono più vicina durante la messa che durante l’apparizione. Molti pellegrini vorrebbero essere presenti nella stanzetta delle apparizioni e perciò si accalcano attorno alla canonica. Quando si spingeranno davanti al tabernacolo come ora fanno davanti alla canonica, avranno capito tutto, avranno capito la presenza di Gesù, perché fare la comunione è più che essere veggente”. Meglio di così non si potrebbe dire. Interiorità ed esteriorità A questo punto possiamo vedere sotto una luce assai diversa quelle “ragioni del cuore” di cui parla Messori. “La maggioranza dei pellegrini che ogni anno si recano a Lourdes”, egli scrive, “non partecipa più alla messa domenicale, però vanno in pellegrinaggio. Perché? Perché a Lourdes preghi, accendi la candela, senti calore”. E dopo averci ricordato il rito del toccare la roccia (quale simbolo migliore del divino reso palpabile?), “che in 150 anni si è ridotta di un centimetro e mezzo”, levigata da milioni di mani, conclude: “La gente beve, va in processione, canta, fa il bagno in piscina; riscopre la corporeità, le ragioni del cuore” (sic; v. NA 57-58). Si resta di stucco: le ragioni del cuore sono poste sullo stesso piano della corporeità, quasi ne fossero un sinonimo; si “riscoprono” facendo un bagno in piscina! L’unico legame che a noi riesce di vedere fra piscina e ragioni del cuore è il fatto che una buona nuotata può essere salutare per il muscolo cardiaco. Certo, l’acqua è simbolo di purificazione per eccellenza, è strumento battesimale; ma qui sembra proprio essere in gioco soprattutto la stimolante sensazione epidermica dell’immersione del corpo. E anche se tutti sappiamo che “chi canta prega due volte”; che Davide festeggiò l’arca del Signore danzando sino al limite della sconvenienza; che nella stessa celebrazione eucaristica alla dimensione sacrificale è associata quella conviviale; suona tuttavia falsa una così enfatica sottolineatura dell’aspetto ludico della frequentazione del santuario da parte di chi non frequenta più neppure la messa. Che ne direbbe Pascal se riaprisse gli occhi? Avrà mai pensato, lui, a un bel tuffo in piscina per riscoprire le “ragioni del cuore” - a cui tanto teneva - attraverso la “corporeità”? E saluterebbe con gioia il fatto che “quello che alla gente piace dei santuari è la bellezza delle chiese; piene di colori, con gli organi”? E a Messori scandalizzato perché “secondo certi preti tanto più la chiesa somiglia a un garage tanto più è cristiana”, non corre il pensiero alle spoglie celle in cui per secoli e secoli tanti spiriti devoti hanno vissuto un’altissima esperienza di spiritualità? Nessuno pretende che i cristiani d’oggi facciano i frati, e tanto meno i frati medievali; anche se magari, in ossequio alla moda, gli viene l’uzzolo di passare un week-end in convento, tanto per fare un’esperienza, promovendo così una sorta di “agioturismo” che si affianca all’agriturismo. Ma è impossibile tacere la conclusione che, mentre le pascaliane “ragioni del cuore” esprimevano un’esigenza di interiorità, tutte le pratiche secondo Messori qualificanti la nuova “religiosità totale”, come egli la chiama, ci appaiono improntate all’esteriorità, e in genere volte alla ricerca, ripetiamo, di una dimensione ludica della pratica religiosa: se non proprio il divertimento, diciamo che si cerca, troppo spesso, la diversione (e proprio tale ricerca Pascal denunciava come nemica prima dell’interiorità!). Qualcuno dirà che ci si deve accontentare, poiché ormai questo è quel che passa il convento. Ma la Chiesa ha mille e una ragione per diffidare di certa spiritualità intrinsecamente paganeggiante. Il recente intervento della curia pontificia che, rischiando coraggiosamente l’impopolarità, ha denunciato le escrescenze spettacolari, consumistiche e affaristiche della venerazione di san Pio da Pietrelcina conferma quanto stiamo dicendo. E qualcuno, come ad esempio mons. Maggiolini, non ha mancato di ricordare che anche l’entusiasmo che propizia l’oceanica affluenza di giovani in occasione delle visite papali (lui si riferiva a quelle di papa Wojtyla) contiene non poco di spurio, se si considera che la grande maggioranza di questi “papaboys” rivela una preoccupante impreparazione sui fondamenti stessi della fede e rivendica piena autonomia di valutazione in materia di morale sessuale. Come dire che, mentre la scristianizzazione avanza, il collante che unisce questi ambigui apostoli della fede è costituito in primo luogo dalla sensibilità al fascino carismatico di un uomo ormai assurto a una dimensione divistica, all’insegna di una “personalizzazione” della religione: il papa superstar, insomma, come qualche decennio fa era capitato a “Jesus Christ”. Ad incrementare l’audience, dice Messori, sono le sette che “esagerano”, quelle del protestantesimo “impazzito”. Già; ma dovrebbe per questo la Chiesa mettersi a pazziare pure lei? Abbiamo, sì, nella nostra cultura l’elogio della Follia; ma la paolina stultitia crucis è cosa profondamente diversa. Assai meno scompostamente euforica. |
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