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controapologetica
 
Friday, 26 April 2024
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               Il processo davanti a Pilato

 

             

 

 

Il problema di fondo

 

Tra l’arresto di Gesù e la sua crocifissione vi è la necessaria tappa intermedia del processo, nonché della condanna con cui esso si conclude.

Anzi, per dir meglio, i processi sono due: uno davanti alle autorità religiose ebraiche e uno davanti all’autorità romana, impersonata dal procuratore Ponzio Pilato.

 

Noi ci occuperemo quasi esclusivamente del secondo. Il processo “ebraico” ha infatti una valenza prevalentemente teologica, e il comune lettore della Bibbia ha poco da eccepire, salvo notare che Luca e Giovanni si staccano entrambi da Marco e Matteo: in luogo della seduta notturna davanti a Caifa, abbiamo in Luca una sola seduta mattutina presso il sinedrio, e in Giovanni un interrogatorio (si dovrebbe supporre preliminare) presso Anna.

 

È quasi superfluo dire che anche nel processo davanti al sinedrio gli studiosi hanno individuato parecchie cose che non quadrano con quanto noi conosciamo delle procedure giudiziarie in vigore in Israele a quel tempo (pur se le nostre informazioni risalgono in parte a un’epoca posteriore).

Dai microfoni di Radio Maria, ad esempio, un autorevole conduttore ha ricordato che di norma il processo non poteva concludersi il giorno stesso in cui era iniziato, salvo in caso di assoluzione; perciò non si poteva iniziarlo la vigilia di una festa.

Inoltre non si poteva né iniziarlo né concluderlo di notte, ed era proibito aprirlo con testimonianze di accusa.

I primi a votare infine dovevano essere i giudici inferiori, per evitare che fossero condizionati dal voto dei colleghi di rango superiore, e ci doveva essere almeno un voto contrario.

 

Tutte queste regole risultano violate nel racconto di Marco: il processo si svolge di notte e alla vigilia della festa; i primi testimoni sentiti portano argomenti a carico dell’imputato; il primo ad emettere il verdetto di condanna è il Sommo sacerdote, e tutti coralmente vi si associano. Ci si chiede perciò da dove Marco (su cui ha modellato il proprio racconto Matteo) abbia attinto il suo materiale.  

 

Noi non ci occuperemo dei tentativi fatti per rispondere a simili domande, che possono sorgere solo in chi ha conoscenze di quelle regole che qui risulterebbero violate.

Faremo invece alcune considerazioni sul processo tenutosi di fronte a Pilato, che fa nascere numerosi interrogativi anche nel lettore privo di nozioni storico-giuridiche, in quanto contiene numerose incongruenze e inverosimiglianze immediatamente rilevabili.  

   

La prima osservazione, veramente fondamentale, che si può fare (e che vale al tempo stesso come giudizio conclusivo) è che una ricostruzione convincente di quel che accadde, e quindi una valutazione obiettiva dell’operato dei vari protagonisti della vicenda, è impossibile per la natura stessa dei resoconti evangelici.

 

Cercando di esaminare più da vicino il problema, possiamo dire che le difficoltà scaturiscono innanzitutto da un triplice ordine di fattori:

 

1) le discordanti e talora incompatibili versioni degli eventi fornite dai quattro vangeli. Va detto però che nei racconti della Passione tali divergenze sono meno vistose che in altri casi (in particolare rispetto ai racconti della Risurrezione), e di per sé non impedirebbero in modo assoluto di giungere a farsi un’idea dello svolgimento dei fatti;

 

2) la mole di dati storici, e in particolare giuridici, che vengono chiamati in causa e sui quali, come si è detto, disponiamo di un’informazione alquanto lacunosa;

 

3) il proposito degli evangelisti, e di Matteo in particolare, di attribuire una preponderante responsabilità agli ebrei rispetto ai romani, il che dà origine a una rappresentazione per alcuni aspetti tendenziosa degli eventi. Tale circostanza non è peraltro ammessa da tutti, e su questo punto dovremo ritornare.

 

Ma accanto a questi tre fattori, che pur rendendo difficile la ricostruzione storica non sono tali da impedirla, ve n’è un quarto che rende inverosimili e quasi incomprensibili i resoconti del processo: l’incompatibilità fra il quadro che essi ci presentano e quanto i vangeli, concordi, ci avevano detto sin qui.

 

Ciò riguarda soprattutto il comportamento di tre protagonisti: a) le folle; b) i capi religiosi ebrei; c) Ponzio Pilato.     

 

 

Le folle  

 

I quattro vangeli ci riferiscono del grande successo di Gesù presso le folle galilaiche: non perdono occasione per dirci che la gente accorreva numerosa (nel caso delle due moltiplicazioni dei pani sappiamo che si trattava di parecchie migliaia di persone) e che era conquistata dall’abilità dialettica di Gesù e dal suo carisma, oltre che dai suoi poteri taumaturgici e, in generale, dalla sua potenza di miracolo. La folla giunge perfino ad acclamarlo re.

Anche quando egli entra in Gerusalemme, in occasione di quella che per i sinottici è la sua unica andata nella città santa, è accompagnato dalle ovazioni di una folla osannante.

 

Eppure, stranamente - anzi, incredibilmente -, quando la situazione precipita ed egli avrebbe bisogno del sostegno popolare, non si leva una sola voce a sua difesa.

Le coordinate cambiano completamente. Viene da chiedersi, col Poeta: “Qui come venn’io o quando?” Sembra di essere improvvisamente finiti su un altro pianeta, o quanto meno nella storia di un altro personaggio.

Quel Gesù che aveva compiuto innumerevoli straordinari “segni” ed era stato acclamato a più riprese (l’ultima volta appena quattro o cinque giorni prima!) non trova nemmeno un cane che faccia sentire una voce di dissenso nei confronti dei gran sacerdoti e dei farisei determinati a farlo morire.

 

A poco serve obiettare che le folle che sostenevano Gesù erano folle galilaiche. Anche ammesso – e non concesso – che tutti gli acclamanti della Domenica delle Palme provenissero dalla Galilea, dovevano pur essersi poi trattenuti a Gerusalemme per la Pasqua.

Anzi, alla vigilia e all’antivigilia della festa dovevano essersene aggiunti molti altri (si ricordi quel che Gv 4, 45 ci dice a proposito della Pasqua di due anni prima, quando la situazione era addirittura rovesciata: i galilei erano rimasti ammirati per aver visto Gesù all’opera a Gerusalemme!).

 

D’altra parte, non si può neppure sostenere che i “segni” mostrati da Gesù avevano avuto per teatro solo la Galilea: proprio il segno più spettacolare di tutti, la risurrezione del morto di quattro dì, era stato offerto poco prima presso Gerusalemme, e faceva seguito alla guarigione del paralitico di Betzatà e a quella del cieco nato.

Ed è proprio a Gerusalemme (o non lontano, a Betania) che Gesù aveva parlato e operato in modo tale da indurre l’evangelista a riferirci che “molti credettero in lui” (Gv 7, 31; 8, 30; 11, 45).

 

Da notare soprattutto la triplice sottolineatura degli effetti prodotti dalla risurrezione di Lazzaro (Gv 11, 45; 12, 11; 12, 17-18). Si badi che ogni volta la conversione era stata originata (per esplicita precisazione dell’evangelista) da ciò che Gesù aveva detto o fatto in quella determinata occasione, sicché i convertiti sono “cumulabili”: i nuovi credenti si aggiungono ogni volta a chi già crede.

E la conclusione è Gv 12, 19b, dove i farisei dichiarano sconsolati: “Ecco, tutto il mondo è andato dietro a lui!”.

 

È solo nell’imminenza dell’arresto che Giovanni sembra mettere le mani avanti per dirci che, “benché avesse fatto segni tanto grandi davanti ad essi, non credevano in lui” (12, 37-43).

La cosa ovviamente risulta assurda, dopo quel che ci è stato detto; e l’unica spiegazione che ci dà l’evangelista è … l’adempimento di due profezie di Isaia (solo riguardo ai capi religiosi dice che fu la paura dell’espulsione dalla sinagoga a impedire a molti di essi di manifestare la loro fede in Gesù).

Si noti fra l’altro che le due profezie dovrebbero aver agito a scoppio ritardato, ossia solo alla vigilia della Passione. E per di più con effetto retroattivo, così da vanificare la fede anche in coloro che già l’avevano abbracciata!

 

In effetti, Giovanni avrebbe dovuto scrivere che molti, i quali già avevano creduto in Gesù (le conversioni più recenti datavano di qualche giorno prima, propiziate dalla risurrezione di Lazzaro), smisero improvvisamente di credere in lui affinché si avverasse la parola del profeta Isaia, che aveva detto …

 

Giovanni non se l’è sentita di scrivere una simile assurdità, anche se per essere coerente avrebbe dovuto farlo. Ma l’assurdità che egli ha voluto evitare sussiste comunque, perché egli ci ha detto che numerose conversioni erano avvenute: per ben tre volte, come abbiamo visto, “molti” avevano creduto in Gesù (senza contare i “molti” convertitisi “al di là del Giordano”, cfr. Gv 10, 42).

Queste conversioni pertanto costituivano già, di fatto, una smentita dell’allegata profezia; a meno che, come si è detto, la necessità di avveramento del vaticinio non abbia agito retroattivamente, facendo tutt’a un tratto perdere la fede in Gesù a chi già credeva in lui (dovremmo in tal caso supporre che lo Spirito Santo, accortosi tardivamente della difformità degli eventi dalle profezie, abbia provveduto in extremis a mettere le cose a posto).

 

Possiamo dunque concludere che il comportamento della folla al momento della condanna di Gesù appare assolutamente incompatibile con l’atteggiamento del popolo quale ci viene descritto dagli evangelisti - e in modo particolare da Giovanni - fino al momento dell’arresto.

 

Suona però vagamente umoristica l’impostazione che il Blinzler dà al problema: “Se davvero i vangeli sono libera creazione della comunità, resta il grave problema di sapere perché non c’è notizia di alcuna presa di posizione favorevole a Gesù da parte almeno di un gruppo di popolo”. Umoristica perché in realtà il problema è senz’altro più grave proprio se i vangeli, anziché essere “libera creazione della comunità”, sono stati scritti col preciso intento di rispettare la storia.

Le cose infatti non possono in alcun caso essersi svolte come ci vengono presentate.

 

Comunque sia, è fuori discussione che i resoconti evangelici ci danno un quadro profondamente disorto o della situazione precedente la Pasqua o di ciò che avvenne in quel fatidico giorno davanti al palazzo di Pilato e sul Calvario.

 

 

I capi religiosi ebraici  

 

I sinedriti e i farisei vogliono uccidere Gesù (Gv 11, 53). Allora lui si ritira nel vicino deserto (v. 54), e quelli danno ordine di segnalarne la presenza per catturarlo, quasi ponessero una sorta di taglia su di lui (v. 57).

Se non che, al versetto seguente (12, 1), vediamo Gesù che se ne va tranquillamente a Betania; e il giorno dopo fa il suo ingresso trionfale in Gersalemme, va nel tempio a predicare (e secondo i sinottici si rende addirittura responsabile della clamorosa cacciata dei mercanti), disquisisce con farisei e sadducei, inveisce contro gli stessi farisei e gli scribi, ecc.

Come orientarsi di fronte a informazioni tanto contrastanti?

 

Eppure questi sono particolari quasi trascurabili rispetto all’inverosimiglianza fondamentale che caratterizza il comportamento dei capi religosi ebraici: essi si sbagliano grossolanamente nel valutare l’ascendente di Gesù sul popolo.

Maliziosamente, verrebbe da dire che loro avevano letto i vangeli solo fino all’inizio dei racconti della Passione, e si fidavano dei resoconti degli evangelisti, valutando la situazione in base agli stessi elementi su cui siamo costretti a giudicare noi. In effetti, i timori che essi nutrivano circa il sostegno popolare a Gesù si dimostrano completamente infondati.

 

Il divario fra le loro previsioni e l’andamento dei fatti è tale da far sorgere seri dubbi sul loro quoziente di intelligenza. In Gv 11, 45 ss. “i gran sacerdoti e i farisei” affermano che se si lascia agire liberamente Gesù, “tutti crederanno in lui, e verranno i romani e distruggerano il nostro luogo santo e la nostra nazione”. Tanto che  il Sommo Sacerdote Caifa afferma drammaticamente che l’eliminazione di Gesù è necessaria “perché non perisca l’intera nazione”.

 

Alla luce di quello che vediamo accadere il giorno di Pasqua (o la vigilia, secondo Giovanni), pare che ci sia stato uno scambio di persona.

Il seguito popolare di cui dovrebbe disporre Gesù si rivela letteralmente inesistente, tanto che egli non riesce neppure ad evitare il supplizio; e l’autorità romana, che veniva descritta come pronta a intervenire da un momento all’altro per porre fine al movimento sedizioso di quel singolare capopopolo, quando si viene al dunque dà addirittura l’impressione di non averne mai sentito parlare!

 

Se ancora occorresse qualche elemento per mettere meglio a fuoco la dabbenaggine dell’establishment religioso ebraico quale ci viene presentato dagli evangelisti, basterà ricordare la decisione chiaramente espressa di procedere all’arresto di Gesù “non durante la festa, affinché non avvengano tumulti fra il popolo” (Mt 26, 5; Mc 14, 2).

Ma poi cosa fanno questi sinedriti? Lo arrestano e lo processano proprio nei giorni che nell’arco dell’anno liturgico registravano certamente il massimo affollamento della città: come scrive Louis Monloubou, citato da Messori, “la pressione politico-religiosa […] in quei giorni saliva sempre a livelli paurosi” (66); per di più, era allora presente a Gerusalemme un gran numero di galilei, che si poteva ritenere fossero i più accesi sostenitori del sedicente Messia.

Impossibile capire qualcosa di fronte a dati così grossolanamente contraddittori, forniti senza alcun cenno di spiegazione che venga in qualche modo incontro alla nostra legittima meraviglia.

 

Di fatto, come sappiamo, quando la folla ammassatasi davanti al pretorio deve prendere posizione pro o contro il Nazareno, come per un tocco di bacchetta magica il consenso di cui questi gode si rivela letteralmente nullo.

Si ha un bel dire che “i gran sacerdoti sobillarono la folla” (Mc 15, 11; cfr Mt 27, 20) perché chiedesse la liberazione di Barabba anziché di Gesù: non si vede come il seguito popolare di un supposto demagogo possa venire “persuaso” a schierarsi contro di lui nel giro di qualche minuto (o qualche decina di minuti, tutt’al più).

 

Si badi che le circostanze in cui era sbocciata la fede dei nuovi credenti non inducono certo a pensare a una fede esclusivamente o prevalentemente orientata verso un messianismo politico, tale perciò da venir messa a dura prova dall’imprigionamento della figura carismastica che l’aveva suscitata.

Anzi, se il fatto di essere caduto nelle mani dell’autorità romana doveva causare la perdita del carisma, ciò sarebbe dovuto accadere, a più forte ragione, proprio per Barabba, che era un capo politico (o comunque portatore di un messianismo marcatamente politico-nazionalistico) e nemico dichiarato dell’occupante.

 

Ma c’è di più. Il sinedrio era formato prevalentemente da Sadducei, malvisti dal popolo e in buoni rapporti (talvolta di complicità) con l’autorità romana. La liberazione di Barabba quindi doveva urtare i loro interessi, come doveva urtare gli interessi del procuratore, che ovviamente aveva da temere assai più da Barabba che da Gesù.

Sicché Messori, presentando l’opinione di David Flusser, opinione che egli condivide, scrive che la liberazione di Barabba “era per la folla motivo di doppia soddisfazione: far dispetto sia ai sinedriti che al Procuratore” (PSPP, p. 65).

 

Ben Chorìn, altro studioso ebreo, obietta che è difficile capire come la classe dirigente ebraica, timorosa dell’agitatore Gesù, potesse desiderare la liberazione di un altro agitatore non meno attivo; al che Messori oppone la spiegazione di Flusser, che nelle sue parole suona così: “il Sinedrio si vide costretto a un aut-aut, al pagamento di un prezzo per quella situazione pericolosa e, seppure a denti stretti, scelse la condanna dell’agitatore Gesù e la liberazione dell’agitatore Barabba”.

 

Concediamo senz’altro che la situazione politica dell’epoca fosse “intricata”; ma qui ci troviamo di fronte a un assurdo, in quanto si afferma che la liberazione di Barabba era motivo di soddisfazione per la folla, mentre gli evangelisti ci dicono che questa ne chiese la liberazione perché “sobillata” dai sinedriti; il che ovviamente implica che il suo naturale orientamento fosse precisamente l’opposto.

D’altra parte, secondo Flusser, i sinedriti stessi, una volta profilatosi il pericolo di tumulti violenti innescati dall’arresto di Gesù (arresto che comunque essi stessi avevano liberamente deciso!), giudicarono che “il solo modo per evitare una rivolta era risparmiare almeno la vita di Barabba, che della folla doveva essere, come guerriero dell’indipendenza, una sorta di beniamino”.

 

Ora, se Barabba è un beniamino della folla, si può comprendere che questa lo preferisca a Gesù; ma la cosa è incompatibile col fatto che i sinedriti vedano nella sua liberazione, a loro di per sé sgradita, l’unico modo per placare la folla stessa esaperata - ed è appunto questo che li terrorizza! - dall’arresto di Gesù!

In sostanza: se l’arresto di Gesù ha esaperato la folla sino a far temere una sollevazione contro i romani e l’establishment religioso, ciò significa che Gesù è un beniamino di questa folla (non ci viene neppure detto, tra l’altro, che tale rischio di sollevazione si sia corso in occasione dell’arresto di Barabba); appare assurdo quindi che per placare la piazza si decida di salvare “almeno” l’agitatore politico in quanto suo beniamino, e di salvarlo proprio mediante la condanna di Gesù.

 

Si tratta cioè di un’argomentazione in una fase della quale si utilizzano certi presupposti fattuali (la folla adora Gesù: di qui il timore dei sinedriti), mentre nelle fase successiva si utilizzano presupposti esattamente contrari (la folla adora Barabba, quindi liberandolo la si placa).

 

Non basta. Ammesso che il privilegium paschale (la liberazione di un prigioniero scelto dalla folla) esistesse realmente, occorrerebbe sapere chi sceglieva la coppia di rei da sottoporre alla scelta popolare.

Tutto fa pensare che a scegliere non fosse la folla stessa, ovviamente, bensì il governatore, a meno che vi fosse qualche criterio fisso, per così dire automatico; in ogni caso, la scelta non spettava certo alle autorità religiose.

 

L’ipotesi Flusser/Messori, al contrario, implica di fatto che essa sia compiuta proprio dai sinedriti: sono loro che vedono nella contrapposizione fra Gesù e Barabba l’unico modo di salvare quest’ultimo, sono loro che concepiscono l’idea di sottoporre alla folla la scelta fra questi due nomi.

Senonché non si capisce come potessero elaborare tale strategia non sapendo che cosa sarebbe passato nella testa di Pilato al momento buono; nella testa cioè di colui che ha tutta l’aria di aver escogitato in modo assolutamente estemporaneo il ricorso al privilegium paschale, o di aver comunque deciso sul momento l’inclusione di Gesù nella coppia di nomi da proporre alla folla. Ennesima assurdità, dunque.

 

Direi però che, al di là di ogni ipotesi più o meno romanzesca (nonché “dietrologica”), ciò che più urta nei resoconti evangelici, ciò che più viola le norme della verosimiglianza psicologica non è il fatto che il popolo scelga la liberazione di Barabba, ma che si accanisca contro Gesù reclamandone la messa a morte ed assumendo su di sé e sui propri figli la responsabilità della decisione.

 Quello che invece dovrebbe essersi verificato, in ogni caso, è una spaccatura nella folla, per cui dovrebbe esservi stata almeno una minoranza decisa a far sentire una voce di dissenso, a cercare di opporsi al supplizio di Gesù.

 

La presentazione dei fatti offertaci dagli evangelisti, oltre ad essere clamorosamente incompatibile con quanto essi ci avevano detto fino a quel momento circa i rapporti tra Gesù da un lato e le folle e i capi religiosi dall’altro, è troppo semplicistica, troppo unilaterale (oltre che chiaramente antigiudaica nella sottolineatura del crucifige): nella realtà non può non esservi stata in quella folla una divisione, o quanto meno un’incrinatura; non può non essersi fatta sentire, ripetiamo, qualche voce dissonante, in difesa di chi veniva messo a morte dopo essere stato tanto ammirato ed amato.    

 

La conclusione comunque è questa: i capi religiosi si rivelano letteralmente privi di cervello. Prima dicono che non bisogna arrestare Gesù durante la festa, poiché sarebbe pericolosissimo; poi lo arrestano proprio nel momento culminante della festa stessa, senza che niente e nessuno gliel’abbia imposto. A questo punto, temono talmente la reazione popolare in favore del Nazareno da disporsi a ingoiare la pillola amara della liberazione di Barabba; ma in effetti poi si constata che è facilissimo convincere la folla a voltare le spalle a Gesù.

Una clamorosa totale incomprensione degli umori della folla. Dal nostro punto di vista, una totale inverosimiglianza.

 

Ancora una considerazione. Abbiamo detto, e vogliamo ora sottolineare, che nessuno imponeva ai sinedriti di arrestare Gesù in quel momento.

La sottolineatura non è inutile, poiché la ricostruzione di Messori, sulla scia di Flusser, sembra dimenticare completamente un particolare così importante: dopo aver ricordato la decisione dei gran sacerdoti di arrestare Gesù ma, come sappiamo, “non durante la festa, perché non avvengano tumulti tra il popolo”, egli prosegue dicendo: “Gli avvenimenti invece precipitarono [sic] e i sinedriti, terrorizzati da un possibile moto della piazza, si affrettarono a darle una soddisfazione” (ossia, come abbiamo visto, la liberazione di Barabba).

 

Gli eventi precipitarono”: già, ma chi li fece precipitare? Non furono forse i sinedriti stessi, con una loro decisione pienamente autonoma?

A quanto sembra, Messori ha capito che il comportamento assurdo attribuito dagli evangelisti ai capi religiosi rende totalmente incomprensibile tutta la dinamica del processo davanti a Pilato; e disinvoltamente cerca di far passare l’arresto di Gesù, che innesca la catena dei drammatici eventi, come una sorta di fatalità di cui nessuno è responsabile.

 

Piccolo particolare altamente rivelatore, dunque. Si potrebbe quasi dire che in questa “improprietà espressiva”, in apparenza tanto innocente, si nasconde tutta la mistificazione che cerca di mostrare la presenza di una logica, ossia di una verosimiglianza, in un susseguirsi di eventi che appaiono invece nel loro insieme un cumulo di assurdità.

 

 

Ponzio Pilato  

 

È sorprendente che nei testi evangelici non vi sia alcun indizio che Pilato conoscesse Gesù. È incredibile che di un uomo che da più di due anni compiva prodigi straordinari, camminando sulle acque e risuscitando morti di quattro giorni - il tutto sotto gli occhi delle folle -, di un uomo che appena cinque giorni prima era entrato in Gerusalemme accolto da una moltitudine osannante, Pilato non sapesse niente.

 

È vero che gran parte dei miracoli erano stati compiuti in Galilea; ma, a parte il fatto che anche la Galilea rientrava nella giurisdizione del procuratore, la risurrezione di Lazzaro, come già abbiamo ricordato, era avvenuta recentemente proprio presso Gerusalemme, dove a suo tempo erano stati guariti il paralitico della piscina di Betzatà e il cieco nato.

E anche se Pilato era salito a Sion da Cesarea solo nell’imminenza della Pasqua, doveva pur essere informato della situazione, ossia di ciò che poteva turbare l’ordine pubblico. Proprio per questo, in fondo, veniva a Gerusalemme in quei giorni cruciali; ed è una banale petizione di principio dire che aveva letto distrattamente i rapporti che gli erano stati fatti circa Gesù.

 

A questo proposito abbiamo nei vangeli un’informazione preziosa, su cui vale la pena di ritornare. Ricordiamo il monito del Sommo sacerdote Caifa (Gv, 11, 45 ss): occorre eliminare Gesù per impedire che il suo successo inarrestabile ecciti i suoi seguaci a tumulti tali da provocare il duro intervento repressivo dei Romani, che sarebbe fatale a tutta la nazione.

Questo fa pensare, al di là di ogni dubbio, che la situazione, se non proprio esplosiva, fosse quanto mai seria; tale comunque da non poter non attirare l’attenzione dell’autorità occupante su quel sedicente Messia.

Benché gli aspiranti a tale ruolo fossero tutt’altro che rari, non possiamo pensare che ve ne fossero in circolazione tanti da impedire a Pilato di ricordare la figura di Gesù, su cui i suoi uomini dovevano da tempo tenere gli occhi puntati.  

 

Vi è poi un’altra circostanza importante che viene di solito trascurata. Pilato, sentendo Gesù proclamarsi figlio di Dio, destinato a tornare sulla terra come giudice escatologico nel giorno del Signore, non può non aver pensato quello che chiunque avrebbe pensato (e penserebbe anche oggi) in simili circostanze: o si trattava veramente del figlio di Dio oppure di uno squilibrato, di un mitomane (sempreché non fosse un volgare impostore, ipotesi che il governatore tendeva ad escludere).

Ora, coloro che ascoltavano simili proclamazioni durante il ministero pubblico di Gesù, erano stati spesso da lui invitati a considerare i miracoli come “segni” della sua provenienza celeste: “Anche se non credete a me, credete alle opere”.

 

Logica vuole quindi che anche Pilato chiedesse inanzitutto a Gesù di addurre qualche prova della sua divinità; e, qualora già fosse a conoscenza di miracoli da lui compiuti (come in effetti avrebbe dovuto essere), accennarvi, discuterne, o contestandone l’autenticità o ammettendo appunto la loro valenza di “prove”.

Invece, sorprendentemente, degli innumerevoli “segni” offerti da Gesù non si dice una sola parola: il discorso si mantiene su un elevato e astratto livello teologico, che pare fosse proprio il meno consono agli interessi e alla preparazione di Pilato.

 

Sicché si deve concludere che il procuratore, visto che considerava Gesù innocente, e quindi non artefice di una prolungata messinscena, sarà stato indotto a proscioglierlo semplicemente per infermità mentale. Se avesse avuto qualche sospetto che egli fosse realmente quello che affermava di essere, avrebbe dovuto, ripetiamo, tentare almeno di procurarsi qualche prova della sua divinità.

 

Tornando al nocciolo del nostro discorso, ossia al fatto che Pilato mostra sorprendentemente di non sapere nulla di Gesù, c’è anche da ricordare che se, secondo quanto ci dice Giovanni, all’arresto aveva preso parte nientemeno che una coorte romana, Pilato avrebbe già dovuto essere al corrente del dossier riguardante il Nazareno ed essersi fatta un’idea della fondatezza delle accuse nei suoi confronti.

 

In ogni caso, è da respingere recisamente l’impostazione di Messori: “C’è da chiedersi se fosse davvero uno sconosciuto, per il governatore, un profeta che da tre anni percorreva tutta la Palestina radunando discepoli e folle e accompagnato dalla fama non solo di un insegnamento anticonformista, spesso polemico, ma anche di guarigioni taumaturgiche” (105).

 

Noi dobbiamo partire dal dato di fatto che i resoconti evangelici ci fanno obiettivamente escludere che Pilato conoscesse Gesù. Il “c’è da chiedersi” in pratica significa solo che vi è contraddizione radicale tra ciò che i vangeli ci dicono e ciò che suggerisce il buon senso.

O meglio, tra ciò che essi ci dicono qui e quanto ci hanno detto sinora; perché è chiaro che per sciogliere la contraddizione si è tentati di pensare che tutti quei miracoli di cui ci hanno parlato fossero in realtà qualcosa di molto diverso da come appaiono nella presentazione che ce ne fanno gli evangelisti.

 

È evidente che l’apologeta tenta di mettere le mani avanti, presentando spontaneamente come “problema”, come piccolo mistero da decifrare, quella che non è altro che una manifesta, squalificante inverosimiglianza presente nei testi. “C’è da chiedersi”: lo si chieda agli evangelisti; sta di fatto che loro hanno scritto così. C’è da chiedersi tutt’al più come mai lo Spirito Santo abbia permesso una simile contraddizione.

 

Un’impostazione del genere, sostanzialmente mistificatoria, l’abbiamo già incontrata nel passo di Blinzler in cui lo studioso diceva: “Resta il grave problema di sapere perché non c’è notizia di alcuna presa di posizione favorevole a Gesù da parte almeno di un gruppo di popolo”.

Ma noi non dobbiamo provvedere a integrare, in nome della verosimiglianza e del buon senso, il racconto evangelico, per poi trarne conclusioni a noi gradite; bensì limitarci a prendere atto che il racconto stesso è per molti aspetti contrario alla verosimiglianza e al buon senso. Con le conseguenze che ne derivano.  

 

Quanto al comportamento di Pilato, quel che balza all’occhio nella ricostruzione dei fatti che ci offrono gli evangelisti è la sua estrema arrendevolezza agli umori della folla manovrata dai sacerdoti (v. in particolare Mt  27, 22 [= Mc 15, 12]: “Dice loro Pilato: "Che farò dunque di Gesù, detto Cristo?"”). Quasi ci si attende che da un momento all’altro dica: “In che altro posso servirvi?”

 

In realtà, è improbabile che egli potesse essere effettivamente intimorito dallo spauracchio, fattogli balenare dalla folla, di una sanzione da parte di Cesare qualora non avesse giustiziato Gesù (“Se lo rilasci, non sei amico di Cesare: chiunque si fa re contraddice a Cesare” [Gv 19, 12]).

In fondo, avrebbe sempre potuto dire che l’accusato non confermava l’accusa di volersi fare re dei Giudei, e che a lui la cosa non risultava da alcun’altra fonte. Lo stesso Erode, in certo senso diretto interessato, gliel’aveva rispedito mostrando di considerarlo poco meno che uno squilibrato.

 

Ben più gravi e giustificati, al contrario, avrebbero potuto essere i rimbrotti di Tiberio a Pilato per aver liberato Barabba. In questo caso non c’erano “voci”, ma fatti: era stato imprigionato “per una rivolta, avvenuta nella città, e per un omicidio” (Lc 23, 19, cfr. Mc 15, 7).

Nella logica dell’occupante, Barabba era di gran lunga più pericoloso di Gesù, per quel poco che Pilato poteva sapere di quest’ultimo; il quale, secondo quanto i vangeli ci hanno detto fin qui, raccomandava addirittura di pagare regolarmente il tributo dando a Cesare quel che era di Cesare (e anche questo Pilato avrebbe dovuto saperlo, tenendo quindi in non cale le accuse dei sinedriti).

 

Dovremmo allora attribuire, come non pochi fanno, la successiva caduta in disgrazia di Pilato al benestare da lui dato alla crocifissione di Gesù (e alla conseguente liberazione di Barabba)?

No, se teniamo conto della situazione concreta che il governatore si trovò a dover gestire in quel per lui infausto mattino pasquale: una piazza urlante, e a quanto pare compatta, che reclamava la libertà per il tribuno omicida e la morte per il sedicente figlio di Dio. Se la prassi di Roma era quella di evitare il più possibile i tumulti, procurando di non esasperare le popolazioni soggette, soprattutto in occasione delle loro maggiori festività, a Pilato non restava altra scelta.

Del resto, i vangeli sono espliciti: “in occasione di ogni festa, il governatore era solito rilasciare alla folla un carcerato, quello che volevano” (Mt 27, 15; cfr. Mc 15, 6).  

 

Ritroviamo quindi la solita insanabile contraddizione: se consideriamo la situazione descrittaci dagli evangelisti fino alla vigilia della Pasqua, dobbiamo dire che Pilato commise un imperdonabile errore liberando Barabba in luogo di Gesù. Se invece consideriamo la situazione che gli stessi evangelisti ci presentano per il giorno della Crocifissione, dobbiamo concludere che sarebbe stata una follia liberare Gesù mandando a morte Barabba.

 

D’altra parte, questo ci porta ad esaminare direttamente un altro risvolto oscuro del “processo romano”, ossia quella consuetudine cui abbiamo più volte accennato e su cui siamo male informati: il cosiddetto privilegium pascale, in forza del quale avveniva la liberazione del prigioniero.

Si è discusso all’infinito per sostenere o negare che tale privilegio fosse in vigore in Palestina intorno all’anno 30 d. C. Noi ci limitiamo a osservare che, se il prigioniero da liberare andava scelto dal popolo, come ci dicono Matteo e Marco, la decisione doveva essere in ogni caso, quasi per definizione, la più negativa per gli interessi dei romani.

 

Resterebbe da chiarire in che modo si accertasse quale era la volontà del popolo circa il prigioniero da liberare, ossia a chi spettasse e come avvenisse la scelta del nominativo o dei nominativi da proporre al giudizio della piazza; solo in questo modo potremmo valutare l’ “originalità” e l’opportunità dell’iniziativa di Pilato che decide di contrapporre Gesù a Barabba.

 

Al comune lettore della Bibbia nasce poi un’altra perplessità circa l’esercizio del privilegium paschale: quando non vi era unanimità nella folla (e questo è proprio quello che si sarebbe dovuto verificare nel nostro caso), la procedura della scelta da parte di quest’ultima non rischiava di risultare fomite di disordini, contrariamente al suo scopo istituzionale?

Come pensare di diminuire la tensione scontentando una metà della piazza?

 

E ancora: se Gesù, come dice Messori, poteva venir “graziato” dal governatore, in applicazione dell’istituto dell’abolitio, in quanto non ancora condannato (cosa che dopo l’emissione del verdetto sarebbe stata possibile solo a un funzionario di grado asssai più elevato), che cosa dobbiamo pensare di Barabba? È possibile che non avesse ancora subito processo e condanna, proprio lui che era stato fatto prigioniero in flagranza di reato?

 

Come si vede, i dubbi, grandi e piccoli, zampillano senza tregua da testi per loro natura problematici, su cui l’apologetica getta qualche barlume suscitando al tempo stesso ombre a non finire.

 

 

 

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POSTILLA

 

GLI EBREI E IL DEICIDIO. LA RESPONSABILITÀ DEL POPOLO EBRAICO NELLA CONDANNA DI GESÙ.

 

 

La ripartizione delle reponsabilità tra giudei e romani  

 

È noto che i racconti evangelici della Passione vengono generalmente ritenuti orientati in senso antigiudaico, tendenti cioè ad accentuare la responsabilità della componente ebraica, rispetto a quella romana, nella condanna di Gesù.

Tale tesi, largamente maggioritaria, ha alimentato accese polemiche anche in occasione dell’uscita del film di Mel Gibson, “The Passion of the Christ”. Gli ambienti ebraici hanno sostenuto che l’opera, proprio per la sua notevole fedeltà ai resoconti evangelici, presenta l’Israele del tempo, nelle sue due componenti del popolo e della classe politico-religiosa, in una luce sostanzialmente negativa.

 

Non mancano naturalmente studiosi che contestano una simile tesi, sottolineando tutti gli elementi del testo in cui viene in varia misura affermata la responsabilità dell’autorità romana.

Tra questi è Vittorio Messori. Egli insiste sul fatto che i vangeli, contrariamente a quanto sostengono Guignebert e tanti altri, non sono affatto teneri con i romani, non tendono affatto a scaricarli di responsabilità per caricarne gli ebrei.

 

Non entriamo nel merito della questione. Non poche considerazioni di Messori sono senz’altro accettabili. Ma resta il fatto incontrovertibile che la stessa impressione della critica razionalistica l’ha avuta – e mantenuta per venti secolila Chiesa stessa, che solo oggi si è decisa a un’inversione di tendenza, ridimensionando, per non dire ritirando, le bimillenarie accuse agli ebrei (e in ciò hanno una parte importante le esigenze dell’ecumenismo e, più in generale, del politically correct).

Se ne deve allora concludere che anche qui i testi evangelici sono equivoci o addirittura fuorvianti, disseminati di trabocchetti, tanto da indurre in errore la Chiesa stessa, benché costantemente assistita dallo Spirito Santo?

 

Stranezze della parola del Signore. E Messori osa compiacersi del fatto che i vangeli sono una miniera inesauribile di problemi! Perché dei testi siano tali, non occorre che siano particolarmente profondi: basta che siano ambigui (meglio ancora: contraddittori).

 

 

Il riconoscimento del messia figlio di Dio

 

La condanna a morte di Gesù fu quello che oggi si suole definire “un atto dovuto”. Proprio perché i giudei erano credenti devoti e osservanti, non potevano tollerare lo scandalo costituito dalle prese di posizione del Cristo.

L’intransigenza nella difesa del monoteismo assoluto, senza distinzione di persone, fa in fondo onore al loro fervore religioso. La rivoluzionaria novità portata dal sedicente Messia proclamatosi figlio di Dio era il massimo peccato concepibile.

 

Sul piano dogmatico costituiva obiettivamente un’eresia di portata straordinaria, tale da configurare una nuova e diversa fede; e poiché Gesù non si limitava a coltivare in proprio la nuova credenza (il che già lo conduceva all’apostasia, ossia al peccato che anche per la Chiesa cristiana è stato per secoli il più grave fra tutti), ma predicava apertamente alle folle facendo attiva opera di proselitismo, quello di cui si rendeva protagonista era a tutti gli effetti uno scisma.

 

Per usare le parole di Gesù, potremmo dire che ciò era quanto meno equivalente a un peccato contro lo Spirito Santo. Lo stesso padre Livio di Radio Maria riconosce senza mezzi termini che quel che affermava il Nazareno, di essere cioè il figlio di Dio incarnatosi, era per i giudei una bestemmia, come lo è del resto per gli ebrei di oggi e per i musulmani; quindi, conclude, la condanna di Gesù, in quanto reazione a tale bestemmia, era giustificata.

Assurdo pertanto, aggiungiamo noi, considerare la crocifissione, come fa tanta parte della catechesi e dell’omiletica, espressione della cattiveria del mondo che si accanisce contro la creatura più innocente e più buona. Gesù stesso non usava espressioni molto sfumate per descrivere la punizione adeguata a certi peccatori: “sarebbe meglio per lui che gli fosse attaccata una macina al collo …”.

 

D’altra parte, anche Gesù non è “innocente”, nella misura in cui non fa tutto il possibile per farsi riconoscere nella sua realtà di uomo e Dio al tempo stesso, e soprattutto nel suo ruolo di Messia: è in certo senso complice dei suoi carnefici, quasi che li volesse gravare di una colpa.

Ad esempio, non dice di essere nato a Betlemme (dato di importanza fondamentale), né di essere di discendenza davidica: se Matteo e Luca han potuto ricostruire la sua genealaogia, come si sostiene, lui avrebbe dovuto addirittura sbandierarla. A ciò si aggiungano tutti i comportamenti che hanno originato la tesi esegetica del cosiddetto “segreto messianico”.

 

Nel complesso, si potrebbe parlare di un fallimento del profetismo. Gesù dice che la sua venuta, passione e risurrezione sono nella Scrittura; ma noi non vi troviamo niente, e concludiamo che proprio per questo sono giustificati gli evangelisti, costretti a forzare il senso delle profezie che citano nello sforzo di reperire qualche accenno alla figura e al destino del Redentore.

I profeti non solo non avevano mai detto che il Messia sarebbe stato umile e sofferente (il Servo di Yahweh di cui parla Isaia veniva interpretato come personificazione di Israele), e che avrebbe riscattato il suo popolo solo dai peccati e non dall’oppressiome politica; ma soprattutto non avevan detto che sarebbe stato figlio di Dio, e Dio lui stesso.

Sicché questo annuncio incredibile è costretto a darlo personalmente proprio colui che si presenta come titolare del ruolo!

 

Come dire che, di fatto, Gesù non ha avuto alcun annunciatore e, tanto meno, alcun “precursore” (lo stesso Battista, che pure lo definisce “agnello di Dio”, si mostra poi alquanto incerto sulla sua identità: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?”).

Logico dunque, anzi sacrosanto, che il sedicente Messia venga preso per pazzo e/o bestemmiatore; e, se pazzo, ovviamente, pazzo pericoloso, in quanto demolitore della fede tradizionale e quindi potenziale sovvertitore dell’ordine pubblico.

 

In effetti, come si è detto, c’era la profezia di Isaia circa il Servo sofferente, ma solo a posteriori venne interpretata in chiave cristiana, come prefigurazione del Cristo.

Ciò non esclude ovviamente che Gesù, consapevolmente o no, si sia modellato proprio su di essa, presentandosi come venuto per servire e dare la vita per la salvezza di molti.  

 

 

La responsabilità collettiva  

 

La responsabilità solidale che attribuisce alla collettività le colpe del singolo, e soprattutto quella che, diacronicamente, addossa ai figli le colpe dei padri, sono categorie poco familiari alla coscienza moderna, e non solo a quella laica.

Le sue radici sono appunto bibliche, vanno ricercate in quel Dio che promette di punire la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione e di premiare la fedeltà mostrando il proprio favore per mille generazioni.

Un esempio clamoroso di questo legame intergenerazionale nell’assunzione di responsabilità è costituito dalla dottrina cristiana del peccato originale.

 

 La catechesi sottolinea che nel capitolo XVIII di Ezechiele la “pedagogia progressiva” di Dio instaura il principio della responsabilità individuale; ma ahimè, basta girare la pagina per leggere, al cap. XX, v. 8, le inequivocabili parole contro Israele: “Eccomi contro di te. Sguainerò la spada e ucciderò in te il giusto e il peccatore”. Il principio della responsabilità individuale viene prontamente rimesso nel cassetto.

Lo troviamo riaffermato, quasi incidentalmente, nel Deuteronomio (24, 16), ma si tratta chiaramente di una norma relativa al diritto privato, famigliare.

 

A livello di istituzioni va naturalmente ricordato il caso della Chiesa cattolica, che per volere di papa Woityla ha recentemente chiesto perdono delle colpe commesse nel corso della sua storia bimillenaria.

Tra coloro che hanno arricciato il naso di fronte a simile iniziativa vi è il cardinal Biffi, secondo il quale la cosa è assurda quanto lo sarebbe pretendere che il sindaco di Milano si dichiari responsabile delle malefatte di Ludovico il Moro.

 

L’argomento è alquanto debole, perché tra i sindaci di Milano non vi è stata nei secoli quella continuità che sussiste invece tra i pontefici: ciascuno di loro succede al precedente per volere dello Spirito Santo, e tutti sono successori di Pietro in una sequenza ininterrotta che addirittura assegna ad ognuno un preciso numero d’ordine.

Ora poi, in forza del dogma dell’infallibilità pontificia, ogni pronunciamento ex cathedra, e in pratica ogni verdetto di rilevante importanza teologica o ecclesiale (ad esempio il no al sacerdozio femminile), è irreformabile, impegnando, almeno in via di principio, i successori.

 

Ma applicare tale principio a un popolo è quanto mai discutibile, e discutibile resta anche nel caso degli ebrei.

Il popolo ebraico rappresenta certo un caso unico nella storia, avendo saputo conservare per quasi venti secoli, nella difficile realtà della diaspora, il senso dell’identità nazionale, ossia la viva coscienza di una profonda coesione etnico-religiosa. Ma non ha, e non ha mai avuto, al suo vertice un’autorità formalmente costituita che sia rimasta ininterrottamente in carica per 2000 anni.

 

Improponibile quindi attribuire agli ebrei di oggi la colpa commessa dai loro antenati all’inizio dell’era volgare. Tale concetto è affermato anche dalla costituzione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II, la quale nega anche la solidarietà per così dire “orizzontale” tra “le autorità ebraiche coi propri seguaci” adoperatesi per la condanna e la morte di Gesù e “tutti gli ebrei allora viventi”.

 

A questo proposito vi sarebbe da considerare un problema che viene di regola trascurato, ossia quello del grado di rappresentatività degli ebrei che condannarono Gesù. A parte la componente sinedrita, ossia l’establishment religioso, la piazza comprendeva non sappiamo quante persone (migliaia, decine di migliaia? o meno, molte meno?) che casualmente si trovavano davanti al palazzo di Pilato in quel momento.

 

Non risulta che vi fosse stata alcuna convocazione, né che si trattasse di una riunione prevista da un calendario particolare, quale sarebbe il caso di un’assemblea adunatasi per un’elezione di magistrati: tutto avviene all’improvviso, di notte, senza che nessuno ne sappia nulla, e la questione davanti a Pilato viene liquidata il mattino seguente nel giro di qualche ora.

Ai presenti inoltre non viene richiesta alcuna particolare qualifica per partecipare alla tumultuosa adunanza; essi dunque rappresentano solo se stessi.

 

Per di più, l’incredibile radicale cambio di atteggiamento nei confronti di Gesù avvenuto nel giro di 24 ore (per sobillazione, si sostiene, da parte dei sacerdoti) fa capire quanto poco fosse qualificata questa piazza a rappresentare un popolo intero nei millenni a venire.

 

L’accusa di deicidio, nei termini classici in cui è stata - e da alcuni viene ancora – sostenuta, è pertanto ridicolmente assurda:

non solo per l’estrema discutibilità del principio della responsabilità collettiva perdurante nei secoli;

non solo per la difficoltà di stabilire la percentuale di responsabilità da assegnare ai romani;

ma anche perché è quanto mai problematico vedere nell’accozzaglia di persone urlanti davanti al Litostroto (e persuase ad accanirsi contro il Nazareno, a quanto sembra, a tambur battente) un’entità che possa in qualche modo venire qualificata come “popolo ebraico”.      

 

 

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