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Friday, 11 October 2024
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                   Gn 3, 15: il cosiddetto ‘protovangelo’ 

 

 

 

Uno dei versetti più famosi e più citati della Bibbia è senz’altro Gn 3, 15, in cui il Signore annuncia al serpente tentatore un futuro di lotta con l’umanità, lotta nella quale i successi delle due parti si alterneranno in una vicenda ininterrotta:

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Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno” (versione CEI).

 

L’esegesi cristiana ne ha fatto il cosiddetto “protovangelo”, ossia l’annunzio dell’invio del Redentore destinato a sconfiggere definitivamente il Maligno; nella versione cattolica, artefice del colpo decisivo che schiaccia la testa al serpente è la madre di Cristo.

Queste però non sono che vistose distorsioni del testo originale, distorsioni consolidatesi in una tradizione più che millenaria. Noi ci proponiamo di fare un esame sistematico della struttura linguistica del versetto per evidenziare tutti i passaggi attraverso i quali si è giunti a quella straordinaria concrezione di falsi che è, a tutti gli effetti, il presunto “protovangelo”.

 

 

A.  IL  VERBO  CAMBIATO 

 

Nell’originale ebraico, a differenza di quanto accade nelle traduzioni correnti da quindici secoli (in cui figurano i verbi “schiacciare” e “insidiare”, o equivalenti), nella seconda parte del versetto  figura due volte, ripetuto, il medesimo verbo per indicare l’azione reciproca delle due stirpi nemiche.

 

Di qui un primo importantissimo corollario: la traduzione a priori più adeguata ed onesta sarà quella che, nelle due frasi coordinate, ripete appunto il medesimo verbo.

Così fanno infatti, tra le versioni antiche, quella dei Settanta (“spierà ... spierai”), il Pentateuco samaritano (“percuoterà ... percuoterai”), Aquila e Simmaco (“schiaccerà ... schiaccerai”). La Syriaca (Peschitta) ha due verbi di significato simile: “calpesterà ... ferirai” (ovvero “morderai”).

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N. B.  Elios G. Mori scrive che la traduzione dei Settanta usa una forma di futuro comune a teíro (schiacciare) e teréo (guatare, in senso ostile), ma il Rocci pare dargli torto: teíro, oltre ad essere di uso “vecchio” e poetico, non risulta affatto avere un futuro del genere (è incredibile la determinazione con cui l’esegesi ortodossa cerca – o inventa – tutti i cavilli possibili).

Lo stesso Mori però, in una nota a piè di pagina, ci informa che prima dell’imporsi della Vulgata (il che avvenne dopo Isidoro di Siviglia, morto nel 636) si usava “in genere” lo stesso verbo nelle due frasi, pur se il verbo variava: calcare, observare, conterĕre.

 

Il cambio di verbo  viene giustificato dall’esegesi devota (v. ad es. Mori e Ortensio da Spinetoli) col fatto che il colpo al capo è mortale, mentre il tallone non è una parte vitale del corpo.

Discorso assurdo, perché è ovvio che il serpente, strisciando sul terreno (comportamento a cui  è appena stato condannato nel v. 14), non può se non attaccare e colpire l’uomo al tallone inoculandogli il veleno che lo porterà alla morte: questo è il suo modo di uccidere l’uomo. È ridicolo pretendere che la simmetria sia da intendersi realizzata solo nel caso che il serpente fracassi la testa del nemico!

Il rettile colpisce l’uomo a tradimento, stando appiattato nell’erba: ecco l’insidia, l’agguato. “Insidierai”, pertanto, qualora lo si voglia usare, non può comunque indicare semplicemente un “minacciare, mettere in pericolo” (quindi qualcosa di velleitario) contrapposto all’ “uccidere” compiuto dall’uomo: significa “uccidere mediante agguato”.

 

L’uomo, dal canto suo, cercherà di fracassare la testa al nemico: questo è il suo modo di uccidere il serpente. Non significa nulla, dunque, la gerarchia esistente tra capo e tallone: vince semplicemente chi riesce a piazzare il colpo per primo, prevenendo l’avversario.

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N. B.  L’argomento della maggior gravità del colpo al capo rispetto a quello inferto al tallone, di per sé inconsistente data la naturale diversa strategia di lotta impiegata dall’uomo e dal serpente, lo è ancor più se si considera l’ordine in cui le due frasi figurano nel testo: prima l’uomo, si afferma, fracassa il capo al rettile, poi quest’ultimo insidia il calcagno dell’uomo.

Circostanza grottesca, che si configura appunto quando si accolgano le due distinte accezioni “schiacciare” e “insidiare”. L’ordine delle frasi assegna per così dire l’ultima parola al serpente, che non può quindi risultare sconfitto se non in una parte degli scontri che avrà con l’uomo.*

 

{*Proprio per questo A. M. Tentori, dopo aver presentato la traduzione della CEI - “insidierai” -, aggiunge, in modo ambiguo e del tutto arbitrario: “si può anche tradurre "perché tu avrai insidiato ..."”.

Evidentemente si rende conto che la collocazione dell’ “insidierai” dopo lo schiacciar la testa è assurda e toglie ogni forza al “protovangelo”. Così, non potendo invertire le frasi, cambia arbitrariamente il tempo verbale per rendere lo schiacciare posteriore all’insidiare, e dare così la vittoria alla stirpe della donna.}

 

Del resto, chi sostiene che la differenza tra le conseguenze del colpire al capo e quelle del colpire al calcagno giustifica il cambiamento del verbo nella traduzione in fondo si contraddice: se tale differenza è, a suo dire, decisiva ed evidente, essa risulterà chiara anche conservando la medesima forma verbale, in quanto saranno appunto i sostantivi a indicare l’asserita divaricazione dei destini dei due contendenti. Anzi, ne risulterà in certo senso un’accentuazione retorica.

 

In ogni caso, l’onestà impone che, nel caso di un testo manifestamente costruito secondo principi di simmetria con impiego deliberato degli stessi elementi lessicali, si conservi tale struttura nella traduzione mediante scelte lessicali equivalenti.

Ma purtroppo tale onestà non si poteva chiederla a un san Gerolamo, colui che inaugurò nella Vulgata l’usanza di ricorrerre a due verbi distinti.

 

La lotta dunque si svolgerà in condizioni di sostanziale equilibrio.

E sarà una lotta eterna, perché il testo non contiene assolutamente alcun termine che ne indichi una fine (tra i molti che concordano su questo possiamo citare ad es. Ravasi, Von Rad, Westermann, Zimmerli).

Il duello si rinnoverà di continuo, tra il serpente che cerca di ferire mortalmente l’uomo al tallone col suo capo e l’uomo che cerca di prevenire il nemico fracassandogli il capo col suo tallone; possiamo anche rappresentare l’eterno riproporsi della lotta immaginando che ogni volta il discendente dello sconfitto vendichi la sua morte sul vincitore o sul suo discendente (così ad es. Soggin: “per ogni serpente ucciso ve ne sarà un altro pronto a scattare”).

 

La perfetta simmetria tra le due situazioni, sapientemente ottenuta mediante l’impiego del medesimo verbo nelle due frasi, è uno strumento che si presta mirabilmente a rappresentare una lotta perpetuantesi con alterna fortuna e in cui non vi sarà vittoria finale e definitiva di alcuna delle due parti.

Perciò, a prescindere da ogni altra considerazione, possiamo affermare che in Gn 3,15 manca l’elemento primo e fondamentale di quello che fraudolentemente viene chiamato “protovangelo”.

 

A mo’ di controprova, proviamo a chiederci come avrebbe dovuto esprimersi l’agiografo qualora avesse voluto rappresentare una situazione di perfetta simmetria tra uomo e serpente, senza alludere in alcun modo a una vittoria finale di uno dei due. La risposta è obbligata: esattamente come si è espresso.

 

Va detto che qualche studioso ha formulato la congettura che le due forme verbali uguali nel testo ebraico siano in realtà forme coincidenti di due verbi di radice diversa, ossia che “il secondo p sia una forma parallela di sa’ap I, ‘afferrare, ..., bramare’”.

Ma si tratta di un’ipotesi che non raccoglie molti consensi: come scrive Hamilton riassumendo le argomentazioni - definite “persuasive” - di Skinner, “sa’ap può talora essere forma parallela di p, ma è improbabile che p sia una forma parallela di sa’ap. Skinner lo considera possibile solo in Gb 9, 17”.

 

In ogni caso, comunque si voglia risolvere la questione dei rapporti tra sûp e sa’ap (il secondo forma parallela del primo o viceversa), una cosa è certa: per descrivere il comportamento reciproco degli uomini e dei serpenti, l’agiografo ha usato l’espressione, per così dire, più ... “uguale” che le risorse della sua lingua gli consentivano.

Anche nel caso – tutt’altro che probabile – che egli sia ricorso a due radici diverse per meglio indicare la differenza “materiale” tra i due comportamenti, si dovrebbe concludere che ne ha sfruttato l’omofonia, con una sorta di calembour, per esprimere il più efficacemente possibile, mediante la ripetizione intenzionale dei medesimi suoni, la fondamentale equivalenza sussistente tra l’azione dei due nemici (questa è anche l’opinione che troviamo nel commento medievale alla Genesi di Rashi di Troyes, per il quale sono qui in gioco due verbi diversi ma quasi omofoni, yashuf e tashuf). Più di così lo scrittore sacro non avrebbe potuto fare per presentare tale azione come simmetrica.

 Perciò, qualunque traduzione che differenzi - o addirittura contrapponga - i due atteggiamenti, istituendo una gerarchia tra il colpo portato dall’uomo e quello del serpente, tradisce vistosamente il senso letterale del testo biblico, o quanto meno l’intenzione del suo autore.

 

Concretamente, la soluzione migliore per la traduzione di sûp sembra quella di renderlo con “cercar di colpire”, “attaccare”, “mirare a” (tra i moderni, Enzo Bianchi traduce con “attentare” in entrambi i casi).

L’uomo cerca di colpire il capo della serpe, questa cerca di colpire il tallone dell’uomo: chi è più pronto e più efficace vincerà lo scontro.

Che, ogni volta, sarà solo uno degli innumerevoli scontri della guerra infinita tra le due stirpi nemiche.   

 

 

B.   IL CONCETTO DI “DISCENDENZA”: CHI È LA STIRPE DELLA DONNA?   

 

Una seconda inaccettabile forzatura che l’esegesi devota ha compiuto su Gn 3, 15 per trasformarlo nel “protovangelo” consiste nella pretesa di vedere indicato nella “discendenza” della donna un individuo determinato, e precisamente Cristo, il futuro Redentore.

 

In realtà, questo è assurdo. Il termine spérma (usato per l’ebr. zera nella versione dei Settanta, che faceva testo per l’AT nei secoli a cavallo dell’Incarnazione) indica tutti i singoli discendenti di x fino a un punto determinato, ossia fino al discendente y. Non può, di regola, indicare il solo discendente y.

 

Al pari degli equivalenti italiani “discendenza”, o “seme” (o “progenie”, “stirpe”, “schiatta”), è un nome collettivo; pertanto, anche al singolare indica una pluralità. Più precisamente: indica un insieme, non un elemento.

Con un’avvertenza (che spiega il “di regola” usato sopra): le due indicazioni vengono a coincidere quando l’insieme in questione è formato da un solo elemento.

 

Perché questo non sembri un gioco di bussolotti, converrà immaginare la discendenza, secondo la sua intima natura, come una catena.

Poniamo che questa sia composta di cento anelli e che il primo di essi sia fissato a un gancio infisso nel muro (gancio che nell’economia della metafora rappresenta il capostipite della stirpe). Se si opera un taglio ad esempio fra l’ottantesimo e l’ottantunesimo anello, la catena si ridurrà ad ottanta anelli; analogamente, potremo ridurla a cinquanta, venti, dieci anelli.

Supponiamo ora di tagliarla tra il primo e il secondo anello: avremo ancora, formalmente, sia pure in senso piuttosto improprio, una catena, composta di un solo anello. Ecco dunque che, per estensione analogica, si potrà avere un insieme coincidente con un suo elemento.

 

Ma con una precisazione fondamentale: questa identificazione della catena con l’anello, ossia dell’insieme con un suo elemento, è possibile solo per il primo anello.

Sarà cioè possibile se si opera il taglio tra il secondo anello e il primo, il quale rimane però unito al gancio (ovvero al capostipite). Non sarà possibile per qualunque altro elemento, in quanto esso, per venire isolato da tutti gli altri, dovrà necessariamente venire separato anche dal gancio.

Ecco dunque perché nell’Antico Testamento incontriamo varie volte la parola “seme” (gr. spérma, ebr. zera) – che è chiaramente, ripetiamo, un nome collettivo – usata per indicare un solo discendente: in tutti i casi in cui ciò avviene ci si riferisce a un discendente diretto, vale a dire a un figlio del(la) capostipite, ossia al primo anello della catena di generazioni.

 

Nel nostro caso, quindi, Cristo, anello lontano, potrà venir definito “discendente” di Eva, ma mai sua “discendenza”, ossia suo “seme”. Mentre potrà venir definito in tal modo Set, in quanto figlio di Eva, e perciò primo anello della sequenza generazionale; e ciò è proprio quanto leggiamo in Gn 4, 25.

Caso analogo è quello di Ismaele, prole di Abramo (cfr. Gn 21, 13). E in 1Sam 1, 11 Anna si augura di poter avere un figlio maschio (“seme di uomini”), così come in 2Sam 7, 12 Salomone, figlio di Saul, figura come suo seme (unitamente a tutta la discendenza).

 

È pertanto speciosa e fuorviante l’argomentazione tanto spesso ripetuta che nell’uso biblico spérma e zera possono indicare tanto una pluralità quanto un individuo: possono indicare un individuo solo quando questi è prole, ossia discendente diretto, del capostipite.

È dunque totalmente sprovvisto di base filologica vedere in Cristo la “discendenza” di Eva. L’uso costante della Bibbia ebraica, al pari dell’uso dei Settanta, lo esclude. Siamo quindi di fronte a un’ulteriore forzatura esegetica gravissima, a un vero e proprio abuso.

 

Che sperma e zera non possono riferirsi a un singolo discendente lontano dal progenitore viene spesso giustamente osservato a proposito del passo paolino di Gal 3, 16, in cui l’abuso consiste nell’identificare con Cristo la “discendenza” di Abramo destinataria delle promesse fatte da Dio a più riprese in Gen 12-22.

Il testo di Paolo ha certo contribuito a dare una parvenza di fondamento all’interpretazione messianica che ha fatto di Gn 3, 15 il “protovangelo”. Ma ovviamente, per quanto si è or ora illustrato, tale interpretazione del passo paolino è essa stessa totalmente priva di legittimità filologica.

 

Di passaggio, varrà la pena di notare come, per offrire uno straccio di alibi a Paolo (al solito sovranamente sicuro nelle sue operazioni di esegesi veterotestamentaria), anche illustri biblisti si diano ad acrobazie di indicibile goffaggine.

Franz Mussner ad esempio scrive: “L’interpretazione ‘individuale’ anziché ‘collettiva’ di spérma, che Paolo in Gal 3, 16 dà alle promesse di benedizione fatte ad Abramo, è già preparata nell’A.T. stesso dalla loro applicazione a figure individuali, per esempio ad Isacco, Giacobbe, David e al Servo di Dio [...], come si è dimostrato” (corsivo nostro).

La “dimostrazione”, fatta poche righe prima, consiste nella citazione di passi in cui Dio rinnova a singoli discendenti di Abramo le promesse fatte al patriarca. Se non che in tali passi Isacco, Giacobbe, Davide e il Servo di Dio figurano sempre come capostipiti, mai come “discendenza”: come progenitori, non come progenie.

Per cui viene a mancare proprio qualsiasi elemento che possa supportare “l’interpretazione ‘individuale’ anziché ‘collettiva’ di spérma” riferito a un discendente lontano.*

 

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{*Questo punto merita ancora un’osservazione, poiché è piuttosto interessante. Paolo parla di “promesse fatte ad Abramo e al suo seme”. Ora, se il seme, come si afferma, è Cristo, risulterebbe che Dio ha fatto le sue promesse a Cristo; affermazione manifestamente assurda, e che comunque, se adeguatamente sviluppata, porrebbe notevoli problemi teologici. I commentatori sorvolano su questo problema, forse perché già troppo affannati a sbrogliare gli altri nodi presenti nel versetto.

Mussner pensa di cavarsela dicendo che Cristo è il “portatore escatologico della promessa di benedizione per le genti”. Ecco, appunto: è il portatore della promessa, non il destinatario, come dice invece Paolo mettendo Cristo in parallelo con Abramo. Bruno Corsani almeno ha il coraggio di dire che il ragionamento di Paolo “può apparire specioso”. Non che lo sia, intendiamoci; ma quanto meno “può apparire” tale. È già qualcosa.}   

 

Va infine notato che trasformando disinvoltamente la stirpe della donna in una singola persona si vanifica irrimediabilmente la simmetria tra le due situazioni, simmetria che, come abbiamo già sottolineato, costituisce la cifra ineliminabile del versetto.

La lotta tra le due stirpi verrebbe infatti a trasformarsi in una lotta tra una stirpe ed un singolo uomo; a meno che si spieghi chi è il discendente remoto della stirpe di Satana contro cui combatteranno vittoriosamente Cristo e Maria.

 

 

C.  EVA  DIVENTA  MARIA

 

Dall’interpretazione messianica del “protovangelo” scaturisce quella mariana, che ne costituisce uno sviluppo, o meglio un’esasperazione.

 

a) Una volta “assodato” (si fa per dire) che Cristo è la “discendenza” della donna che lotterà col serpente (riportando, per di più, la vittoria finale), era impossibile resistere alla tentazione di associare a tale lotta vittoriosa la madre di Gesù.

Naturalmente, per arrivare a Maria partendo da Cristo, occorre retrocedere di una generazione. Ciò si fa ricorrendo al concetto di “discendenza” nel suo senso proprio di “catena generazionale”.

Così, dopo avere ignorato il principio della catena che noi abbiamo sopra illustrato, saltando da Eva a Cristo, ora lo si rispolvera per risalire a ritroso da Cristo a Maria.

 

Questo, appunto, in quanto “la concezione biblica pone una profonda solidarietà tra il genitore e la sua discendenza”, come dice la catechesi papale del 29 maggio 1996 (il Papa non ha pensato, pare, che in virtù dello stesso principio la vittoria sul serpente può essere allora altrettanto legittimamente attribuita ai genitori di Maria, e quindi ai nonni, ai bisnonni, ecc.).

Sicché, conclude Giovanni Paolo II con tutta la mariologia di tutti i tempi, rappresentare Maria che schiaccia la testa al serpente (Maria, cioè, in luogo di Cristo, che sarebbe la “discendenza” propriamente indicata dal “protovangelo”) non significa tradire lo spirito del testo biblico.

 

b) Ecco dunque disinvoltamente affermato il trionfo di Maria su Satana. Abbiamo or ora visto che nel testo ebraico non c’è nessun trionfo e che in ogni caso non può essere Cristo il discendente vincitore, per cui tanto meno può esserlo Maria.

Ma adesso ci troviamo di fronte a un’ulteriore tremenda forzatura al senso di Gn 3, 15: d’improvviso entra in scena un’altra donna, ed Eva scompare, come per virtù d’incantesimo.

 

Per usare ancora le parole del Papa: “Gli esegeti sono ormai concordi nel riconoscere [bontà loro, diciamo noi!] che il testo della Genesi, secondo l’originale ebraico, attribuisce l’azione contro il serpente non direttamente alla donna, ma alla stirpe di lei. Il testo dà comunque un grande risalto al ruolo che ella svolgerà nella lotta contro il tentatore: il vincitore del serpente sarà, infatti, sua progenie. Chi è questa donna? [sic!] Il testo biblico non riferisce il suo nome personale, ma lascia intravedere una donna nuova, voluta da Dio per riparare la caduta di Eva […]. Alla luce del Nuovo Testamento e della tradizione della Chiesa, sappiamo che la donna nuova annunciata dal Protovangelo è Maria, e riconosciamo nella ‘sua stirpe’ (Gn 3, 15), il figlio, Gesù, trionfatore nel mistero della Pasqua su Satana” (catechesi del 24 gennaio 1996).  

 

Avremmo dunque (“il testo biblico lo lascia intravedere”!) una “donna nuova”. Di fatto, di questa fantomatica “donna nuova” nel testo biblico non vi è la minima traccia.

E non si capisce per quale gioco di prestigio la supposta donna nuova abbia fatto all’improvviso sparire Eva, intorno alla quale è imperniato tutto il discorso di cui l’asserito “protovangelo” fa parte. 

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“Chi  è questa donna?” finge di chiedersi il Papa. Difficile immaginare domanda più stravagante. Si rimane di stucco: come si può sostenere che la Scrittura non dice di chi si tratti? Chiunque abbia un quoziente di intelligenza appena appena nella norma lo capisce immediatamente dal contesto, in virtù di certe leggi elementari (e universali) che regolano la comunicazione verbale.  

 

Nel v. 13 infatti “la donna” (ossia Eva) dice: “Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato”. Allora, nel v. 14, il Signore si rivolge al serpente e gli comunica che per punizione sarà condannato a strisciare sul ventre e a mangiare la terra. E nel v. 15 gli precisa di aver stabilito eterna inimicizia tra lui e la donna, tra la sua stirpe e la stirpe di lei, vale a dire l’umanità (giacché Eva, secondo il nome stesso datole da Adamo, è “la madre di tutti i viventi”).

Finché nel v. 16 si rivolge alla donna medesima e le comunica quale sarà la sua punizione: vedrà moltiplicate le sue gravidanze, partorirà nel dolore, sarà succube dell’uomo.

È importante osservare la struttura perfettamente simmetrica del testo: il v. 14 e il v. 16 presentano i verdetti rispettivamente contro il serpente e contro la donna, mentre quello centrale presenta una condanna che associa i due in una lotta senza fine.

 

Ora, non si riesce assolutamente a vedere perché “la donna” del v. 15, e solo quella, debba essere un’altra donna: anziché la peccatrice Eva dei vv. 13 e 16 – testé colta in fallo e subito condannata –, la “tuttasanta” Maria, resa così titolare dell’inimicizia posta tra la donna e il serpente in vista di un fantomatico trionfo finale.

 

Giova ripetere: il v. 15, in cui farebbe la sua inopinata comparsa la Vergine, è inserito tra l’ammissione di colpa di Eva e il verdetto di condanna pronunciato da Dio contro di lei; il tutto in un contesto logico serrato e coerente che comprende anche la sentenza contro l’altro colpevole del misfatto, il serpe tentatore.

Se l’agiografo, in un simile contesto, avesse inteso usare il termine “donna” del v. 15 per indicare tutt’altra donna, dovremmo concludere che la Bibbia, fin dai primi capitoli, si rivela scritta con indicibile insipienza: la “parola di Dio” apparirebbe vergata da qualcuno che ignora le più elementari regole della comunicazione verbale.

 

E il giudizio non migliorerebbe supponendo che, in virtù del sensus plenior, lo scrittore sacro abbia espresso una verità di cui non era consapevole. In tal caso il marchio di insipienza investirebbe direttamente l’autore principale del libro, lo Spirito Santo, in quanto “Maria” in luogo di “Eva” non rappresenta un “senso più pieno”, ma un “senso stravolto”: dice esattamente l’opposto.

 

L’incredibile clamorosa distorsione esegetica risulta ancor più evidente se si considera che il termine ebraico issah (‘donna’) - così come il suo corrispondente greco gyné nella versione dei Settanta – viene usato, tra la fine del cap. 2 e l’incipit del cap. 4, per un totale di ben 19 volte (in 29 versetti).

Orbene, solo in Gn 3, 15, precisamente la quattordicesima di queste 19 volte, esso designerebbe, non si capisce perché, la madre di Cristo; mentre in tutti gli altri 18 casi indicherebbe Eva, moglie di Adamo, capostipite dei viventi e prima archetipica peccatrice, ovvero la donna in generale in quanto compagna dell’uomo.

 

E non si può neppure ricorrere alla sottigliezza di congetturare che “porrò inimicizia tra te e la donna” alluda in primis a Eva, e che poi sia la discendenza di Eva a far comparire la “nuova donna”. Non si può perché l’esegesi ufficiale che sta alla base del dogma dell’Immacolata vede proprio nelle prime parole del v. 15 l’affermazione di una radicale inimicizia tra il serpente e la Vergine, tra Satana e Maria.

 

L’asserita designazione di Maria come “donna” in Gn 3, 15 troverebbe una conferma, si afferma spesso, nel “donna” usato da Gesù come forma allocutiva a Cana e sul Calvario nel quarto Vangelo, oltre a figurare nel cap. XII dell’Apocalisse.

Ora, a parte l’assurdità di vedere Maria nella donna di Gn 3, 15, va osservato che il “donna” con cui Gesù si rivolge alla madre, se da un lato esprime un distacco che rasenta la freddezza, dall’altro non può certo caratterizzare Maria quasi fosse un epiteto particolare, usato solo per lei.

Gesù lo usa costantemente con le altre tre donne a cui rivolge la parola nel vangelo di Giovanni: e due di esse, ossia la Samaritana e l’Adultera, sono nientemeno che emerite e dichiarate peccatrici!

 Per quanto poi riguarda i Sinottici, va ricordato che Gesù si rivolge con un “donna” alla donna cananea (Mt 15, 22.28; cfr. Mc 15-16) e alla “donna curva” (Lc 13, 12), mentre per ben cinque volte viene indicata come “donna” la peccatrice che compare nel cap. 7 di Luca.

 

Tra l’altro, la pretesa dell’esegesi devota è totalmente priva di base filologica per il semplice fatto che “donna” ha registro completamente diverso a seconda che sia usato con valore referenziale, in un contesto enunciativo, o, al contrario, come allocutivo, rivolgendosi cioè a un’interlocutrice.

Mentre nel primo caso ha valore di pura denotazione, designa cioè una persona senza aggiungere alcuna sfumatura positiva o negativa, quando è impiegato come vocativo acquista una carica di deferenza – e quindi di formalità, di distacco, di estraneità - in quanto si contrappone virtualmente ad altri termini che sono di solito usati nella cerchia famigliare, e in ogni caso da parte di un figlio che si rivolge alla madre. (Su questo v. anche “L’asserita presenza di Maria sul Calvario” e “La Sacra Famiglia”.)  

 

 

D.  LA GHERMINELLA SINTATTICA: IL CAMBIO DI PRONOME

 

Ennesima gravissima distorsione operata dall’esegesi per conferire significato messianico e mariano a Gn 3, 15 è l’utilizzazione di traduzioni – la Settanta e la Vulgata – in cui figura tradotto erroneamente il pronome personale di terza persona contenuto nel versetto stesso.

Poiché infatti spérma è neutro, il greco avrebbe dovuto usare, in riferimento ad esso, un pronome neutro; i Settanta hanno invece usato il maschile, spianando così la via all’interpretazione di chi vede nella discendenza un uomo: dunque il Messia, il Cristo.

 

Un’operazione simile la stessa traduzione la compie in due passi da noi già citati, 1Sam 1, 11 e 2Sam 7, 12. Se non che in questi casi è chiarissimo, come già si è ricordato, che si tratta non della “discendenza”, bensì di un discendente diretto rispettivamente di Anna e di Davide.

Ed è altrettanto chiaro che si tratta di un maschio: nel caso di Anna perché la donna chiede espressamente al Signore di donarle un figlio maschio, offrendosi di consacrarlo, se sarà esaudita, al servizio divino; nel secondo caso perché il discendente di Davide di cui Dio sta parlando è perfettamente individuato in Salomone. Logico qundi che il genere grammaticale di spérma passi in secondo piano di fronte alla concreta realtà del personaggio di sesso maschile cui il pronome in entrambi i casi si riferisce.

Ma in Gn 3, 15 non vi era assolutamente alcun motivo di usare un pronome maschile in riferimento al neutro spérma.

 

Se la traduzione greca ha commesso questa gherminella, san Gerolamo ha poi provveduto a perfezionare la truffa. Pur traducendo l’ebraico zera con il latino semen, che è neutro come il greco spérma, ha poi usato, con scelta totalmente arbitraria, il pronome femminile ipsa, che ha spalancato la via all’interpretazione mariana.

Così, anche in virtù di quest’altra frode filologica - la sostituzione pronominale -, dalla stirpe, dalla discendenza, siamo passati prima a Cristo e poi a Maria.

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E.  VARIANTE ESEGETICA: LE DUE STIRPI DI UOMINI

 

La confusione su ciò che si debba intendere per “discendenza della donna” (confusione sorta unicamente per il desiderio di vedere a tutti i costi prefigurati in Gn 3, 15 il Redentore e sua madre) aumenta ancor più se si considera un’ulteriore interpretazione che di tanto in tanto fa capolino in varie forme.

 

Tale interpretazione vede nelle due “discendenze” non già la progenie del serpente e la progenie della donna (ossia gli uomini, sia pure arbitrariamente identificati, come si è visto, in Cristo e/o in Maria); bensì due stirpi di uomini, l’una dei buoni e l’altra dei cattivi.

È superfluo dire che anche questa variante piuttosto bizzarra non ha alcun fondamento nel testo biblico; tanto più che essa, in modo quasi grottesco, identifica l’umanità buona (in lotta con i malvagi) con la discendenza della peccatrice Eva, che appena un istante dopo (nel v. 16) riceve da Dio la solenne condanna per il fatale peccato commesso: maternità dolorosa e soggezione all’uomo!

 

Troviamo ad esempio tale interpretazione - presentata addirittura come l’unica possibile, senza il minimo accenno alla problematica dell’identificazione -, oltre che in “Genesi” di G. Ravasi, nella voce “Maria nell’AT” di A. Serra (“Nuovo dizionario di teologia biblica”, p. 905 ss): “Nell’economia del racconto di Gn 2, 18 – 3, 21 la ‘donna’ è Eva”. Fin qui tutto a posto. Ma ecco come, incomprensibilmente, si prosegue: “Il ‘seme del serpente’ designa coloro che si lasciano adescare dal seduttore, divenendo così suoi figli, suoi gregari, col seguirne l’istigazione al male  (cf. Sap 2, 24; Gv 8, 44)”. Per poi concludere: “Per esclusione, il seme della donna sarà costituito da coloro che si mantengono fedeli alle vie di Dio”.

È chiaro quindi che l’autore, in modo assolutamente arbitrario, ha identificato l’umanità intera nelle due stirpi in contesa; con ciò, tra l’altro, ha tradito lo spirito del racconto biblico, che pone all’inizio della storia dell’uomo un conflitto con una realtà esterna all’uomo stesso.

 

Inutile dire poi che anche Serra non ha dubbi che “a questa discendenza della donna Dio promette vittoria definitiva sui seguaci del serpente, ossia sulle forze del maligno”. E indugia su una rilettura del passo fatta dal Targum, secondo la quale, dice, “gli israeliti saranno guariti dalla ferita al calcagno, mentre per il serpente non vi sarà rimedio alcuno”.

La conclusione è che “secondo gli elementi della suddetta parafrasi targumica, si evince che la donna di Gen 3, 15 rappresenta non tanto l’umanità in genere, quanto la comunità d’Israele in cammino verso la redenzione messianica. In una parola: il popolo eletto col suo messia”.

Il che contribuisce ad accrescere la confusione, poiché la “redenzione messianica”, posta come esito finale di una lunga lotta con l’incarnazione del male, può solo significare, in una prospettiva autenticamente cristiana, un riscatto dal peccato; mentre nel testo targumico essa non può che alludere a un riscatto politico, etnico, nazionalistico.

 

Abbiamo indugiato sul testo di questo biblista sia per la sua autorevolezza sia per l’esemplarità del suo faticoso argomentare.

Simili variazioni di bravura sul tema, frequenti nell’esegesi devota, danno l’impressione di voler aggrovigliare la matassa per occultare il significato elementare del passo, significato che appare evidente a chiunque legga il testo in modo filologicamente corretto.

Dalla confusione poi, ovviamente, si lasciano in ogni caso emergere gli elementi che interessano alla catechesi cattolica: il serpente sarà definitivamente sconfitto, il vincitore sarà Cristo, e dietro a lui vi sarà, come coprotagonista, sua madre.

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CONCLUSIONI

 

IL SENSO DI Gn 3, 15

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Al di là (o forse sarebbe meglio dire “al di qua”) del preteso “protovangelo”, il significato teologico del nostro versetto appare chiaro.

 

Eva si è mostrata “amica” del serpente (ha accolto come vera la sua dichiarazione “da amico” circa le intenzioni di Dio), e ha ceduto subito al suo subdolo invito. D’ora in poi, però, avendo capito la sua vera natura, avrà timore di lui, cercherà di resistergli, gli sarà nemica.

Proprio per il fatto di aver mangiato, con Adamo, del frutto dell’albero della scienza del bene e del male, Eva – al pari dei suoi discendenti, gli uomini tutti – conosce il male e vede nel serpente la sua incarnazione, quindi lo combatte; peraltro avverte che esso  è seducente, sicché vi sarà un’eterna lotta con la tentazione.

 

Siamo chiaramente di fronte a un mito eziologico adombrante la lotta tra il principio del piacere e i dettami della coscienza (sublimazione del principio di realtà), tra l’io e il super-io, tra l’impulso egoistico e le istanze etiche, ovviamente sentite e presentate in chiave squisitamente religiosa, ossia come comandamenti del Dio pantocratore.

Mediante un’incredibile serie di distorsioni esegetiche la Tradizione e il Magistero ne hanno stravolto il senso, facendone una vera e propria concrezione di falsi: la ... roccia su cui costruire il dogma dell’Immacolata concezione.

 

 

L’ASSURDO  TEOLOGICO

 

Per finire, va ancora detto che l’assunto fondamentale dell’asserito “protovangelo” è assurdo anche sotto il profilo teologico.

Se si pensa che adesso Satana, a detta di tante Madonne - ed in primis di quella di Medjugorje - è semplicemente sciolto dalle catene, e che in ogni caso (questo è nel “depositum fidei”) prima della fine del mondo - quando verrà meno il katéchon e si scatenerà l’Anticristo - farà addirittura il diavolo a quattro, appare del tutto fuori luogo considerarlo definitivamente spacciato - secondo la lettera del “ti schiaccerà la testa” - in occasione della venuta di Cristo e di sua madre.

 

Irrimediabilmente vinto (e comunque non ucciso), Satana sarà solo quando verrà chiuso nello stagno di fuoco e zolfo. Tutt’al più possiamo dire che, a partire dalla Redenzione, sono disponibili sul mercato della spiritualità strumenti per impedirgli di nuocere oltre un certo limite, evitando così che arrivi a causare la rovina eterna dell’anima.

Tutto qui. Ma parlare di capo schiacciato è, oltre che falso, addirittura di cattivo gusto.      

 

 

P. S.   UN ESEMPIO DI MISTIFICAZIONE APOLOGETICA

 

Qualcuno probabilmente si chiederà come si comporta, di fronte a simili vistose falsificazioni esegetiche, il biblista strettamente ortodosso che pure, grazie alla propria preparazione filologica, non può non vedere tutte le malefatte dell’esegesi ufficiale del Magistero.

Non è difficile rispondere: di regola, l’interesse apologetico gli impone di comportarsi come un avvocato, che, pur vedendo lucidamente tutti gli elementi sfavorevoli alla causa che egli difende, cerca di attirare l’attenzione dei giurati sulle circostanze positive per il suo assistito, ignorando sistematicamente quelle negative.

 

Può essere utile fornire un esempio dei modi in cui l’apologetica presenta al pio lettore la realtà di quella frode filologica multipla che costituisce il preteso “protovangelo” (pur se nel nostro caso non si tratta di apologetica militante e dichiarata).

Vediamo come “confeziona il pacco”, organizzando sapientemente vari spunti occasionalmente reperibili nella catechesi, un biblista della preparazione, della cultura, del prestigio e della “capacità di porgere” di Gianfranco Ravasi (tra l’altro, provetto semitista; l’opera da cui citiamo è Il libro della Genesi (1-11), Città Nuova 1994).

 

Scrive dunque mons. Ravasi (come al solito, ci permettiamo di sottolineare col corsivo quanto fa al caso nostro):

 

“È una lotta permanente tra bene e male: il verbo usato in ebraico per indicare lo “schiacciare” il capo del serpente e l’ “insidiare” dello stesso serpente è uguale e, pur nella diversità dei significati [sic!], vuole suggerire la continuità della sfida tra bene e male. Ma la lettura tradizionale ha voluto spezzare questo filo di tensione ed ha inteso il senso del pronome (‘questa ti schiaccerà la testa’) in modo personale. Il soggetto, allora, non è più il seme in senso generico ma un seme qualificato, una persona, il Messia. Con lui la lotta contro il male riceverà una svolta decisiva.”

 

E dopo un richiamo al famoso passo di Isaia (11, 8) che “descrive il mondo inaugurato dal Messia come un orizzonte di pace in cui il serpente non sarà più pericoloso, ma apparterrà all’armonia del creato”, prosegue:

Anzi, la tradizione cristiana andrà più avanti e nel pronome ‘questa’ vedrà un’allusione alla madre del Messia, Maria, spesso raffigurata mentre ‘schiaccia la testa’ del serpente. È la grandiosa visione del c. 12 dell’Apocalisse quando ‘una donna vestita di sole’ incinta dà alla luce un figlio contro il quale si scaglia ‘un enorme drago rosso’”.

E qui si ricorda che il drago vuole divorare il bambino appena nato, “ma la vittoria è per la donna e il suo figlio, cioè per la Chiesa e il Cristo, per Maria e il figlio di Dio”, mentre il drago, ovvero il serpente antico, ovvero Satana, viene precipitato sulla terra.

 

A questo punto è facile per il biblista concludere che “il testo della Genesi diventa, allora, un ‘protovangelo’, un annunzio di speranza anche se il suo tenore iniziale era quello di proclamare la realtà della storia umana come un grande campo di battaglia nel quale sistematicamente si confrontano bene e male, seme del serpente e seme della donna”.

Dopodiché l’autore spicca il volo per spiegarci con alate parole, in un altro paio di pagine, che, pur se il tono dei primi undici capitoli della Genesi è in genere “oscuro”, la prospettiva che il protovangelo ci dischiude è consolante, perché “Dio insegue l’uomo non per annientarlo o perseguitarlo ma per purificarlo e riportarlo a sé”.

 

Fin qui Ravasi. Se ora ripercorriamo le sue disquisizioni, vediamo che in effetti egli, nella sostanza, ha detto gran parte di quello che noi abbiamo sopra denunciato come un complesso di falsificazioni perpetrate nel corso dei secoli dall’esegesi ufficiale.

 

Ha detto infatti che, nell’originale ebraico, in luogo delle due forme verbali che leggiamo nelle traduzioni moderne ve n’è una sola; se non che, con poca coerenza (in termini retorici parleremmo di “petizione di principio”), ha dato per scontato che quest’unica forma ripetuta veicoli due significati diversi, facendo così in modo che il lettore non sia minimamente indotto a pensare ad una traduzione arbitraria.

 

Poi ci ha detto che la “stirpe” del testo semitico è diventata una persona, secondo quella che è un’altra delle forzature da noi segnalate.

Ma si noti con quanta abilità l’ha detto: in primo luogo ha attribuito l’iniziativa a qualcosa di impersonale, “la lettura tradizionale”, non all’azione concreta di esegeti disonesti; a questa “lettura” ha poi attribuito una volontà (“ha voluto spezzare questo filo di tensione”); e, siccome “tensione” è concetto negativo, il lettore riceve un’impressione positiva da questa operazione che la elimina. (Naturalmente all’autore non passa neppure per la testa di chiedersi, e quindi dire al fedele, se questa “lettura” del versetto era legittima o no.)

 

Ma, soprattutto, è efficacissimo l’espediente di contrapporre “il seme in senso generico” ad “un seme qualificato”.

A parte il fatto che la prima vera distorsione è rappresentata dalla sostituzione del concetto collettivo di “stirpe” con quello individuale di “discendente”, fatto su cui Ravasi sorvola, è evidente l’effetto edificante che scaturisce dalla contrapposizione di due termini - quali “generico” e “qualificato” - a forte connotazione negativa l’uno, positiva l’altro (si pensi a “operaio generico” vs “operaio qualificato”).

Quando poi, con un magistrale crescendo (un climax, in termini retorici), si parla di “un seme qualificato, una persona, il Messia”, il lettore viene quasi sollecitato all’applauso per queste operazioni che trasformano i termini e l’esito del conflitto: con il Messia “la lotta contro il male riceverà una svolta decisiva”.

 

Felicissima anche l’idea di farci gustare un assaggio di questo trionfo finale del bene, col passo di Isaia che ci presenta il bambino che in un mondo pacificato “metterà la mano nel covo dei serpenti velenosi”. Valeva la pena dunque di operare questi “slittamenti di significato”, non può fare a meno di pensare tra sé il lettore credente.

E qui arriva il capolavoro: “Anzi, la tradizione cristiana andrà più avanti e nel pronome ‘questa’ vedrà un’allusione alla madre del Messia, spesso raffigurata mentre ‘schiaccia la testa’ del serpente”. Quella che è una vera e propria frode viene presentata come un atto meritorio e quasi coraggioso, in ogni caso come un avanzamento, come un progresso, secondo quello che è il significato profondo di tutta l’operazione apologetica.

Tra l’altro, si dà l’impressione che la trasformazione pronominale si limiti ad “alludere” ad una prassi figurativa ormai invalsa, mentre in realtà ne costituisce essa stessa la base biblica.

 

La citazione del passo dell’Apocalisse sulla “donna vestita di sole” è poi il degno coronamento di tutta l’esposizione, anche se non ha proprio nulla a che vedere con Gn 3, 15.

Inutile dire che per Ravasi la donna rappresenta non solo la Chiesa ma anche Maria, e che egli si guarda bene dall’accennare al comportamento di questa donna, per non creare un contrasto troppo stridente con l’immagine appena presentata della Vergine che schiaccia la testa alla serpe.

Perché la donna dell’Apocalisse, in realtà, non fa altro che scappare rifugiandosi nel deserto. Altro che schiacciare la testa al serpente! Buon per lei che il dragone viene poi precipitato sulla terra.

A questo punto il nostro autore può tirare la conclusione, che vale la pena di riportare nuovamente: “Il testo della Genesi diventa, allora, un ‘protovangelo’, un annunzio di speranza anche se il suo tenore iniziale era quello di proclamare la realtà della storia umana come un grande campo di battaglia nel quale sistematicamente si confrontano bene e male, seme del serpente e seme della donna”.

Al che segue, come si è detto, il pistolotto finale sull’universale volontà salvifica di Dio e sulla provvidenzialità del suo agire.

 

Ribadendo correttamente quello che era il “tenore iniziale” del versetto veterotestamentario, mons. Ravasi compie fino in fondo il proprio dovere: pur se non ha affrontato direttamente il problema della discendenza che diventa un discendente e quello dell’inopinata sostituzione di Eva con Maria, sulle vicissitudini ermeneutiche di Gn 3, 15 ci ha detto molto.

Se non che ne ha stravolto il senso: quella che in realtà non è stata che una sequela di inammissibili frodi filologiche, ossia manipolazioni esegetiche operate su un testo, è divenuta, sotto la penna del consumato apologeta, una serie di operazioni, coraggiosamente compiute dalla Tradizione e dalla Chiesa, che hanno in sostanza trasformato i termini reali della storia della salvezza in modo assai positivo per l’uomo, e quindi gratificante per il lettore. 

 

Dal che si deve dedurre che il Cielo, se ha tenuto nascosto le verità decisive per la salvezza ai sapienti e agli intelligenti per rivelarle ai piccoli, ai semplici, ha però dato ad alcuni selezionati sapienti la capacità di irretire questi semplici presentandogli i sacri testi, qualunque cosa dicano, secondo le consolanti prospettive dell’analogia fidei.

 

Al fondo di tutte queste disinvolte operazioni apologetiche stanno due taciti presupposti:

1) ammesso (e per l’apologetica non concesso, s’intende), che quelle di cui si discute siano frodi, si tratta comunque di piae fraudes, compiute ad maiorem Dei gloriam, in vista della salvezza delle anime, per cui saremmo di fronte a un caso di felix culpa;

2) ammesso, e sempre non concesso, che tali supposte frodi siano dei veri e propri reati contro l’onestà intellettuale, e quindi contro la verità, i continui richiami alla bimillenaria venerabile Tradizione della Chiesa vogliono ricordarci che si tratta di reati ormai caduti in prescrizione.

 

Quel che ci scapita dunque è la verità, l’umile verità accertabile con i mezzi umani della filologia e della storia, ma manipolata da chi orgogliosamente si proclama depositario della Verità, quella trascendente e definitiva che la Chiesa cattolica afferma di possedere “in tutto il suo splendore”.   

 

 

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