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Durata dell’inabitazione del Cristo Nel capitolo precedente abbiamo esaminato il problema della durata della presenza del Cristo nel fedele che si è comunicato. L’abbiamo fatto però - in conformità al principio enunciato da Gesù stesso nei vangeli di Marco e di Matteo - nella prospettiva di un transito delle sacre specie nel tubo digerente dell’interessato. Ora vogliamo considerare la questione da un altro punto di vista, prescindendo da tale prospettiva crudamente realistica. Supponiamo dunque che il pane e il vino assunti dal credente vadano effettivamente al suo cuore, alla sua anima; o, in via subordinata, rinunciamo semplicemente a chiederci quale organo costituisca la loro precisa destinazione, limitandoci a considerare la loro presenza nel credente stesso. Ebbene, anche ponendo il problema in questi termini, ci troviamo di fronte ad alcuni interrogativi a cui pare difficile dare risposta. In via di principio, infatti, Gesù, una volta entrato nell’anima del fedele, dovrebbe rimanervi per un tempo indefinito, salvo il caso che ne venga cacciato a causa di un peccato mortale (anche se è lecito chiedersi come si possa commettere un peccato mortale avendo Gesù nell’anima). In assenza di peccati, non si vede dunque che senso abbia accostarsi nuovamente al sacramento, accogliendo nel cuore una sorta di duplicato del Cristo che già vi si trova. Il fatto che ciò avvenga, e sia addirittura caldamente raccomandato, rivela il tacito presupposto di un depotenziamento graduale del Cristo assunto eucaristicamente; sicché si tratterebbe di una sorta di batteria da ricaricare anche se non completamente scarica, anzi, magari ancora pressoché carica. Tutto ciò è molto strano ed incongruo, in quanto nell’eucarestia il fedele non accoglie in sé un influsso divino, bensì il Cristo stesso, tutto intero, realmente presente in corpo, sangue, anima e divinità. L’unica possibilità di perderlo dovrebbe quindi essere la sua uscita, tutt’intero, in un sol tratto, dall’anima che lo ospitava, secondo le stesse modalità con cui vi era entrato; senonché, si è visto, ciò si può ipotizzare solo nel caso di peccato mortale. La cosa appare strana soprattutto se si considera che nei casi di possessione demoniaca il tempo necessario per espellere completamente il demonio - a detta di don Gabriele Amorth, principe degli esorcisti italiani - si misura in genere in settimane, mesi o addirittura anni. Per l’inabitazione del Cristo nel fedele è invece questione di ore o di giorni! Il Verbo incarnato si dimostra assai meno tenace nel possesso dell’anima del fedele di quanto non sia Satana, il cui diabolico influsso, una volta impadronitosi della preda, non ha bisogno di alcuna “ricarica”, e tanto meno di una ricarica quotidiana. Siamo quindi di fronte a un’altra incongruenza che mostra quanto sia fragile il tessuto dottrinale della tematica eucaristica. Ma ancor più sorprendente è la coincidenza di tempi tra il supposto “depotenziamento” del Cristo assunto e la metabolizzazione del pane e del vino. La frequenza ideale dell’eucarestia è quella giornaliera. Si tratta in pratica anche della frequenza massima: solo i sacerdoti possono superarla quando dicono due o, eccezionalmente, tre messe in una giornata. Identica, ossia di 24 ore, è la normale durata della metabolizzazione delle sostanze alimentari, dalla loro ingestione all’eliminazione dei rifiuti organici. In alcuni casi si scende al di sotto di tale limite, il che di regola avviene per i liquidi, i cui tempi sono di qualche ora. Che si debba dunque supporre una certa corrispondenza tra la permanenza del pane eucaristico nel corpo e la permanenza del Cristo in chi l’ha ricevuto sacramentalmente? Nulla prova il contrario. Ne deduciamo che si tratta di un’ipotesi teologica ragionevolmente fondata. Anche per questa via, dunque, pur dopo aver supposto che il pane e il vino consacrati convoglino nel cuore, ossia nell’anima stessa del fedele, corpo sangue anima e divinità del Cristo, siamo ricondotti a considerare la prospettiva del transito delle sacre specie attraverso il tubo digerente come quella che meglio si presta a rendere conto di certi aspetti teologici della problematica relativa al sacramento. Comunione e possessione demoniaca Non basta. Il tema dell’esorcismo ci porta a considerare un’altra grave aporia della dottrina eucaristica: è sorprendente il fatto che l’assunzione delle sacre specie sia totalmente inefficace contro la possessione demoniaca. Gli esorcisti ci raccontano che di fronte all’ostensione del crocefisso il demonio presente nell’indemoniato sbava, si agita sino al parossismo, urlando, imprecando, nonché contorcendo e tormentando in tutti i modi il malcapitato che lo ospita. Questo perché, ci viene spiegato, Cristo è il più forte nemico del Diavolo. Ma come mai allora, ci chiediamo noi, quando il Cristo è addirittura nel corpo stesso dell’indemoniato, a immediato contatto col Maligno, la sua efficacia esorcistica è praticamente nulla? Non dovrebbe tale presenza costituire, al contrario, l’esorcismo più potente in assoluto? Non ci assicura san Paolo che Gesù “distruggerà con il soffio della sua bocca” l’empio, l’iniquo la cui venuta avverrà “nella potenza di Satana”? E i Vangeli non ci mostrano i demòni che fuggono urlanti e atterriti davanti a Gesù, supplicandolo di non annientarli? Ricordiamo anche Lc 11, 21-22, dove Gesù parla dell’uomo forte al quale subentra uno più forte di lui che lo sloggia: “Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, tutti i suoi beni stanno al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via l'armatura nella quale confidava e ne distribuisce il bottino”. E invece proprio Gesù, che dovrebbe essere l’uomo più forte in assoluto, di fronte al demonio che “possiede” l’invasato ci fa una ben magra figura! Il demonio mostra di farsene letteralmente un baffo di quello che, ripetiamo, dovrebbe per definizione costituire l’esorcismo più potente che si possa concepire. Possiamo dunque affermare che la tesi dell’inabitazione del Cristo nel fedele comunicatosi non regge alla prova del nove di un caso di possessione demoniaca, dal quale risulta in modo lampante l’assoluta inefficacia della comunione per scacciare, o quanto meno disturbare, il demonio. Possiamo considerare in certo senso l’indemoniato come un Christ detector, una sorta cioè di metal detector atto a rilevare la “presenza reale” del Cristo in corpo, sangue, anima e divinità. L’assoluta mancanza di reazione del “rivelatore” ci rende certi che lì di Cristo non vi è traccia. In alternativa, s’intende, potremo trarne la conclusione inequivocabile che i supposti casi di possessione diabolica sono in realtà semplici manifestazioni di patologia psichica in cui il demonio non ha alcun ruolo. Siamo di fronte in sostanza a due sviluppi teologici che hanno seguito ciascuno un proprio percorso, portando a conclusioni che nell’attuale sistemazione dottrinale si trovano in flagrante, clamorosa contraddizione.
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