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Nella versione radiofonica del suo libro “Ragioni per vivere, ragioni per credere” padre Livio ricorda un episodio raccontato da Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto. In India, a colloquio con un guru, lo scrittore si sentì esporre, con grande enfasi e convinzione, la tesi dell’essenza spirituale e divina di ciascun individuo umano. Se non che a un tratto al suo “divino” interlocutore sfuggì un rutto rumoroso; di qui il suo commento sarcastico, che padre Livio fa proprio: “Dio rutta”. Nessuna polemica con Lanza del Vasto, che in effetti cercò molto seriamente di armonizzare la prospettiva trinitaria del cristianesimo con le concezioni del non-dualismo e della maya proprie della filosofia vedanta; oltre a ciò, non siamo in grado di reperire, per una verifica, le sue precise parole. Ma è stupefacente che padre Livio faccia dell’ironia di così bassa lega senza rendersi conto delle implicazioni teologiche di simili discorsi. In primo luogo, infatti, è chiaro che il rutto del guru non mette affatto in discussione la sua tesi filosofica. Ciò non solo per la banale considerazione di filosofia spicciola che le miserie della carne non toccano lo spirito, ma anche per una ragione più “tecnica”: la filosofia indiana, che prevede successive reincarnazioni dell’anima in più corpi diversi, considera assai meno saldo il legame tra anima e corpo di quanto non faccia la dottrina cristiana. Per quest’ultima infatti tale legame è unico e inscindibile; spezzato momentaneamente dalla morte, è destinato a ricostituirsi, per durare poi in eterno, alla fine dei tempi. Sicché è evidente che per il guru il rutto è opera del corpo, e l’anima - semplice ospite - non ne viene minimamente toccata; mentre è proprio nella prospettiva cristiana che l’anima risulta maggiormente coinvolta, in quanto quel corpo che rutta è proprio il suo, quello con cui dovrà convivere per l’eternità. E chissà che anche in paradiso non si ripresenti (naturalmente in forma ”pneumatica”!) qualche problema del genere, visto che il “corpo glorioso” del Risorto, a immagine del quale siamo invitati a pensare i corpi dei beati, si permetteva di mangiare del pesce arrostito, che sarà poi verosimilmente passato attraverso i processi digestivi. Ma l’ironia di padre Livio appare ancor più fuori luogo - anzi, addirittura grottesca - se si pensa che proprio nel cristianesimo è centrale la figura del Verbo incarnato, “vero Dio e vero uomo, in tutto simile a noi fuorché nel peccato”. Sicché è pacifico che a Gesù dobbiamo attribuire tutte le funzioni corporali, dal rutto a quelle ancor meno nobili della minzione e dell’evacuazione. Ce lo conferma il compianto padre Carlo Carretto, che, rivolgendosi a Maria in un’omelia divenuta famosa, esclamava: “Vedere un bimbo, il tuo bimbo, era facile, ma credere, credere mentre gli facevi fare la ‘pipì’ in un angolo che proprio lui, il tuo bimbo, era il Figlio di Dio non era cosa facile”. Che cosa in effetti pensasse Maria non sappiamo, né mai lo sapremo. Sappiamo invece, purtroppo, quel che pensa padre Livio. O, meglio, quel che di tanto in tanto gli capita di ruttare.
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