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controapologetica
 
Friday, 19 April 2024
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                   ‘Piena di grazia’

 

 

 

 

 

 

 

 

28 Entrando da lei, disse: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”.

29 A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto.

30 L’angelo le disse: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio”. (Lc, 1)

 

 

“Piena di grazia” è l’appellativo con cui l’arcangelo Gabriele si rivolge a Maria, quasi fosse una sorta di nome proprio (cosa che l’esegesi devota si premura di sottolineare, per rendere il termine ancor più pregnante).

L’espressione italiana è la traduzione fedele del “gratia plena” della versione latina di san Gerolamo (la famosa “Vulgata”). Ma il testo greco ha una forma diversa: una sola parola, kecharitoméne, che è un participio del verbo charitóo.

Orbene, motivi teologici hanno indotto a enfatizzare oltremodo la presunta intraducibile ricchezza di significato di tale parola. Vale dunque la pena di fare qualche osservazione controcorrente.

 

1) In primo luogo vi è quella che potremmo chiamare “la questione della pienezza”.

Il verbo greco charitóo significa letteralmente ‘dotare di grazia’; ‘empire di grazia’ (Rocci) è una valenza intensiva non sempre riscontrabile. “I verbi in –óo indicano una straordinaria pienezza, diceva il mio docente di greco biblico”, ricorda padre Livio Fanzaga; ma ad esempio Schürmann scrive che essi “possono esprimere, ma non necessariamente, la pienezza”.

Assurdo pertanto dire che la traduzione latina (“gratia plena”, come abbiamo visto) del participio kecharitoméne non rende adeguatamente il senso della “pienezza”, ossia della sovrabbondanza di grazia di cui è stata dotata Maria. “Piena di grazia”, al pari di tutte le traduzioni moderne che ricalcano quella latina, dice semmai di più, non di meno: “Il ‘gratia plena’ della Vulgata permette un’interpretazione più profonda” (Schürmann).

Del resto, il quarto vangelo qualifica il Verbo stesso come - alla lettera - “pieno di grazia”: pléres cháritos (Gv 1,14).

 

L’intento dell’apologetica è chiaro: mostrare che il termine greco attribuisce a Maria una dotazione di grazia incomparabile; e ciò allo scopo di farne un fondamento atto a reggere, col solo sussidio del cosiddetto “protovangelo” (Gn 3, 15), il peso del dogma dell’Immacolata.

Ma, a parte ogni disquisizione filologica, non si può non osservare che anche quando noi diciamo “colmare qualcuno di lodi, di benefici” o simili, non intendiamo indicare una pienezza assoluta, un massimo letteralmente non superabile: chi è stato “colmato di lodi” può senz’altro riceverne altre. Si tratta di iperboli comunemente impiegate, e intese come tali da tutti i parlanti.

 

Va poi detto che per alcuni autorevoli studiosi, pure di irreprensibile ortodossia cattolica, i verbi in –óo non si caratterizzano affatto per un’indicazione di “pienezza”: “Filologicamente, i verbi in – significano una trasformazione del soggetto …” Così R. Laurentin, citato da Rossé; il quale dal canto suo adotta la traduzione di I. de la Potterie: “trasformata dalla grazia”.

Tot capita, tot sententiae. Ovvero, diremo che abbiamo qui l’ennesimo esempio dell’ “inesauribile ricchezza della parola di Dio”.

 

2) Altra questione su cui l’apologetica insiste particolarmente è quella dell’asserita “origine remota” della grazia.

Essendo un participio perfetto (passivo), kecharitoméne indica l’effetto, perdurante nel presente, di un’azione compiuta nel passato; equivale quindi a ‘che è stata dotata (colmata) di grazia e lo è tuttora’.

Tra parentesi, va precisato che la tanto enfatizzata intraducibilità del termine si riduce al fatto che, mentre esso - in quanto participio - può venire sostantivato (come accade appunto nel nostro caso), il suo equivalente italiano è una proposizione, che in quanto tale può venire impiegata solo predicativamente (“sei stata dotata …”) oppure attributivamente, come relativa riferita a un sostantivo o a un pronome (“tu, che sei stata dotata …”).

 

Comunque sia, dal fatto che il nostro termine indica un’azione avvenuta nel passato l’esegesi cattolica deduce, del tutto arbitrariamente, l’originarietà dell’azione che esso esprime, ossia del conferimento della grazia a Maria. Di qui l’affermazione che la Vergine ebbe la massima grazia possibile (v. il punto precedente) “fin dal primo istante” della sua vita, ossia dal momento del concepimento (a differenza ad esempio del Battista, che si suppone sia stato santificato più tardi, nel grembo della madre).

È evidente che tale asserzione, necessaria per definire il dogma dell’Immacolata, non ha il minimo fondamento filologico.

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Si può citare a titolo di curiosità Stelvio Cipriani, che nel “Nuovo Dizionario di Mariologia”, alla voce “credente”, traduce bene kacharitoméne, ma dice che l’uso del perfetto “sta a significare un gesto di amore che non comincia adesso, ma ha le sue origini nell’eternità di Dio”.

Nientemeno. Diremo allora che la grammatica greca si è arricchita del “participio perfetto passivo eterno”.

 

3) Kecharitoméne può essere semplicemente inteso, come non pochi commentatori in effetti fanno, in funzione di prolettico, ossia come anticipazione della particolare grazia che l’angelo sta per annunciare (cfr. v. 30: “… hai trovato grazia presso Dio”).

Tale interpretazione si accorda assai bene con quanto si è detto nel capitolo precedente circa la pressione psicologica esercitata dal “rallégrati” che si vuole rivolto dall’angelo a Maria. Anche le ditte di cui si è parlato in quella sede dicono: “Lei è stato baciato dalla fortuna”, alludendo all’evento che si apprestano a comunicare, e prescindendo completamente dal fatto che il destinatario dell’annuncio possa dal canto suo trovarsi in un mare di guai.

 

Il termine andrebbe allora tradotto con “toccata dalla grazia”, “[tu] che hai trovato grazia presso Dio”: con riferimento al futuro dunque, ossia alla prestigiosa missione che sta per essere annunciata, anziché al passato (il concepimento senza peccato originale).

Il che equivale a dire che la grazia di cui si parla non sarebbe una grazia santificante, ossia una condizione permanente dell’anima, bensì una grazia attuale, una singola grazia - la straordinaria elezione a madre del Messia - che è appena stata concessa dall’Altissimo.

 

Ciò ha ovviamente gravi conseguenze per il dogma dell’Immacolata. Per questo tale interpretazione è contestata dalla maggioranza degli esegeti cattolici .

 

4) Kecharitoméne è, come si è detto, un participio perfetto passivo.

Mi sembra giusto sottolineare il particolare, usando di quella finezza di cui tanto spesso dà prova l’esegesi devota, per mettere in evidenza la passività di Maria in tutta l’operazione che la rende degna di ospitare nel suo grembo il Redentore.

Non “piena di grazia”, dunque, come dicono il latino e le lingue moderne, bensì “dotata”, “riempita” di grazia. La pienezza che si sostiene esprimano i verbi in –óo è qui una pienezza al passivo. La traduzione più adeguata, pur se poco reverente, sarebbe “imbottita di grazia”.

Tale sottolineatura, filologicamente ineccepibile, mette bene in risalto il privilegio – o meglio, la serie di privilegi – di cui ha fruito Maria. Non per nulla J. P. Audet ha addirittura proposto di tradurre kecharitoméne con “privilegiata”.

 

5) A questo punto, occorre fare la considerazione forse più importante, quella che da sola rende in fondo superflue tutte le altre.

Viene da chiedersi che senso abbia insistere ossessivamente a sviscerare il contenuto semantico di una parola o di un’espressione per metterne in luce le più riposte sfumature (che si pretende siano solo imperfettamente esprimibili in altre lingue), quando è escluso che tale parola sia stata effettivamente pronunciata dal personaggio a cui l’evangelista l’attribuisce.

 

L’angelo apparso a Maria sicuramente non parlò greco; perciò tutti i pretesi tesori di significato - legati a certe peculiarità della lingua greca - che noi possiamo scoprire in kecharitoméne (per utilizzarli poi nella costruzione teologica) non hanno nulla a che vedere con quel che realmente accadde duemila anni fa in una casa di Nazaret.

Maria non può aver mai rivelato a Luca o agli informatori di Luca che Gabriele la salutò con questo epiteto. Kecharitoméne l’ha pensato l’evangelista, ovvero l’ha raccolto da una tradizione nata in ambiente grecofono; in ogni caso noi non possiamo sapere che cosa ci fosse, nelle parole dell’angelo, al posto di questo termine.

 

Ce lo dice anche G. Rossé, che ne trae poi le conseguenze con riferimento a tutto l’episodio (sia pure, pudicamente, in una nota a piè di pagina). Dopo aver fatto notare l’intraducibile allitterazione tra “Chaire (da Chara = gioia) e kecharitoméne (da Charis = grazia)”, così commenta: “È un argomento serio in favore dell’origine ellenistica (forse redazionale [ossia lucana]) del brano, che quindi non sembra essere la traduzione di una fonte aramaica o ebraica. Non risale allora a qualche resoconto storico: Maria con ogni probabilità non parlava il greco!”. Viva la sincerità.

 

6) A questa considerazione l’apologetica può ancora ribattere che, in ogni caso, è lecito supporre che Luca abbia mirabilmente reso, con quel participio greco, il senso delle parole aramaiche dell’angelo.

Da quanto si è detto fin qui può sembrare infatti che il termine sia una coniazione personalissima dell’evangelista, o comunque una parola rara e impiegata esclusivamente per esprimere una condizione di alta spiritualità.

 

 Niente di tutto questo. Nel dizionario di Lorenzo Rocci, kecharitoménos (di cui kecharitoméne è la forma femminile), participio di charitóo, viene qualificato sinonimo di kecharisménos, di cui si dà la definizione di “attraente; grato; piacevole, ecc.”.

Sotto il lemma charitóo, poi, per il participio kecharitoménos si danno come equivalenti “venusto” e “grazioso”; con riferimento a una donna, si dà per la variante testuale di Sir 9, 8 nella versione dei Settanta (e si tratta, ricordiamo, di una donna da cui l’uomo deve guardarsi per non esserne sviato!) il significato di “affabile” (per il passo di Luca, ovviamente, il canonico “piena di grazia”).

E poiché ‘venusto’ vale “bello, pieno di grazia e leggiadria” (De Mauro), possiamo concludere che kecharitoméne era correntemente usato, in riferimento a una donna, con una gamma di significati che corrisponde a quella del nostro aggettivo “bella”. Il fatto che il contesto dell’Annunciazione sconsigli una traduzione “profana” non toglie che sia del tutto fuori luogo considerare il nostro termine come avvolto da un’aura di arcana sacralità.

 

Ma si può fare un’ulteriore considerazione, provocatoria ma inoppugnabile: se consideriamo che cháire – a prescindere da una possibile allusione biblica da parte di Luca – era, come si è detto, una comune formula di saluto che veniva impiegata al momento dell’incontro (cfr. Ave, Maria), vediamo che “Cháire, kecharitoméne” può legittimamente venire considerato un equivalente del nostro “Ciao, bella”.

Formula, quest’ultima, non necessariamente usata per apostrofare una vistosa bellezza incrociata sulla pubblica via: si può impiegarla anche per rivolgersi con simpatia ed affetto a una bambina o a una fanciulla.

 

Sta di fatto che “cháire, kecharitoméne” è un’allocuzione che sarà risuonata parecchie volte sulle labbra di innumerevoli cittadini grecofoni della koinè sullo scorcio del primo secolo a. C. E nessuno avrà pensato ad “abissi di luce abbagliante”, come fantastica certa apologetica.

Se dunque Luca avesse voluto veramente indicare, mediante le parole usate dall’angelo nel rivolgersi a Maria, lo statuto specialissimo della Vergine privilegiata dal Cielo sin dalla nascita in vista del suo ruolo di madre del Verbo incarnato, avrebbe certo scelto qualche espressione di uso meno corrente.

Fermo restando naturalmente il fatto che l’angelo, non rivolgendosi a Maria in greco, non usò né cháirekecharitoméne.

 

È infine opportuno segnalare una circostanza che è un po’ la cartina di tornasole di quanto si è appena detto: il continuatore diretto di kecharitoméne, ossia charitoméne (privo del morfema che nella lingua antica costituiva il raddoppiamento caratterizzante il perfetto, e con la vocale finale che suona i), è correntemente usato nel greco moderno. E, proprio come nel greco antico, il termine indica una donna carina, attraente, seducente, dotata di charme.

 

Strano destino per una parola che si pretenderebbe quasi pensata e creata ab aeterno da Dio per designare, in una sorta di “esclusiva”, la specialissima condizione della beata Vergine Maria: parola direttamente ispirata dal Cielo a Luca e custodita nel suo vangelo come una sorta di hapax degno della più alta reverenza.

In realtà, (ke)charitoméne è da più di venti secoli sulla bocca di chi parla greco per dire di una donna quello che ogni donna ama sentirsi dire: che è bella, che attira l’attenzione dell’uomo.

 

  

7) Una curiosità, per finire. Una straordinaria – e certo involontaria – conferma di quanto stiamo dicendo ci viene proprio da un campione dell’apologetica d’assalto.

In “Mistero Medjugorje”, Antonio Socci, concedendosi la libertà di definire la Madonna bosniaca “la Bella Ragazza di Medjugorje”, ci spiega che questa espressione “si trova in un antico graffito di un pellegrino a Nazaret, nella basilica dell’Annunciazione dove si conservano tante testimonianze in greco e aramaico dell’amore per la Vergine. Questa scritta dice: "Qui sono venuto a venerare la Bella Ragazza"” (p. 206).

 

Non sappiamo se la scritta sia in greco o in aramaico, e forse non lo sa neppure Socci. Ma i casi sono due: o l’antico graffitaro riportò tale quale il (ke)charitoméne del vangelo (e allora “Bella Ragazza” non è che la traduzione ufficiosa vulgata ad uso dei turisti) o provvide egli stesso a tradurre in questo modo, sulla base della propria competenza linguistica, il termine di Luca.

In entrambi i casi, il nostro commento non può essere che uno: “Come volevasi dimostrare”.

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