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Thursday, 28 March 2024
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                       Madre beata e figlio dannato

 

 

 

Il problema

 

È impossibile parlare di beatitudine eterna per la madre che in Paradiso, leggendo tutto in Dio, ha piena e continua conoscenza dei tormenti del figlio dannato.  Ciò dimostra l’assurdità di una prospettiva oltremondana che sia al tempo stesso  

 

1) di beatitudine in base a meriti  (e/o grazie) individuali e  

2) di “ricongiungimento” di persone che si amano,  in vista di una continuazione dei rapporti terreni.                                                             

 

Tale prospettiva consolatoria mostra chiarissimamente di essere stata costruita ad hoc, in base al principio del “credo quod cupio”.

 

In primo luogo, infatti, nessuno può dire, di se stesso o di altri, se finirà in paradiso o all’inferno. È pertanto impossibile credere alla buona fede di quel teologo di Radio Maria che alla vedova inconsolabile dice: “Ma cara signora, la sua è solo una separazione temporanea, destinata a ricomporsi in cielo.”  Come può lui garantire che sia andato in cielo il marito e che ci vada poi la moglie? 

E pensare che appena prima, dicendo, per apparire simpatico, che lui non è di quelli che affermano di non temere la morte, aveva aggiunto: “se non altro perché bisogna pur sempre affrontare il giudizio di Dio”.  

Dunque se neppure lui, che presumibilmente fa una santa vita di apostolato e di preghiera, è sicuro di andare alla fine in cielo, come può, senza barare, assicurare a chicchessia il ricongiungimento coi suoi cari nell’aldilà?  Eppure arriva a dire testualmente, cordiale e rassicurante: “Ma sì, niente ci impedisce di credere che lei potrà stare vicino alla persona amata, in una prossimità anche fisica”.

 

In secondo luogo, è impossibile circoscrivere il numero delle persone amate che ciascuno dovrebbe avere accanto a sé in paradiso.  Le persone che ognuno di noi ama e da cui è amato si dispongono in lunghe catene inestricabilmente intrecciate tra loro.  Sicché, per evitare che si verifichino lacerazioni, dovremmo finire tutti in paradiso.

 

Siamo dunque di fronte a una disgustosa vendita di fumo.  Tutte le concezioni esaltate del Giudizio grondano trionfalismo per la “vittoria” degli eletti e riprovazione per i “capri” dannati, trascurando, con la più grossolana ingenuità, la circostanza che i due insiemi saranno pur sempre legati da innumerevoli vincoli di parentela e di affetto.

Per cui, a meno di rinnegare, nella prospettiva oltremondana, tutti i legami affettivi terreni (il che per moltissimi credenti sarebbe, su questa terra, una tragedia), anche il più spettacolare e definitivo trionfo sul peccato e sulla morte sarà per quasi tutti, nell’aldilà, una tragedia non inferiore. Ecco quindi che la dimensione tragica dell’esistenza, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra.

 

Quante madri “beate” vedranno i propri figli dannati, proprio come Lazzaro vede il ricco epulone, e ne “assaporeranno” istante per istante i tormenti, per tutta l’eternità!  E indipendentemente dalle madri, i beati tutti vedranno i dannati tutti.  

Se ne rallegreranno?  Sarebbe “sadismo paradisiaco”.  Resteranno indifferenti?  Sarebbe mostruoso e crudele.  Ne saranno turbati?  Allora, addio beatitudine.

  

La “soluzione” dei teologi    

La soluzione offerta dai teologi per questo problema che la catechesi cerca il più possibile di occultare è semplice, e si trova già in S. Tommaso.  La felicità dei beati, si dice in sostanza, consiste nel perfetto adeguamento della volontà alla volontà divina.  Quindi essi, “vedendo” quanto giustamente ha agito Dio nell’assegnare beatitudine e dannazione eterne, non sentiranno minimamente scalfita la propria felicità.

 

Già. Troppo semplice, anzi semplicistico.  Qui non si tratta solo di consentire razionalmente (ecco il “vedere” con la mente) ai decreti della giustizia divina; c’è ben altro.  I beati, leggendo tutto in Dio, hanno piena conoscenza della condizione dei dannati.  Quindi la madre approdata al paradiso non potrà non vedere “con gli occhi” il proprio figlio sottoposto ai più atroci tormenti, così come Lazzaro vede l’epulone: e con  tutto ciò dovrebbe essere “beata”!

 

Certo, la condizione paradisiaca è totalmente autre, è ineffabile, inimmaginabile; per cui non si può escludere che la beatitudine della madre conviva in lei con la consapevolezza e la percezione per così dire fisica della dannazione del figlio.  Ma perché ciò possa avvenire occorre che le anime in cielo siano ridotte alla condizione di automi programmati per godere della visione beatifica, che siano completamente staccate da ogni affetto terreno: in una parola, che siano completamente disumanizzate.

La madre sarà totalmente indifferente alla sorte del figlio: che egli sia in paradiso o all’inferno, per lei sarà esattamente la stessa cosa. Deve essere così: se fosse diversamente, il saperlo all’inferno toglierebbe qualcosa (anzi, molto) alla sua beatitudine, le farebbe sentire che se fosse anch’egli in cielo lei sarebbe più felice.  Potrebbe addirittura spingerla – udite, udite – a implorare Dio di trasferirlo in paradiso accanto a lei, ovvero di trasferire lei stessa all’inferno.

 

La soluzione “ufficiale” dell’angosciosa aporia escatologica lascia ovviamente l’amaro in bocca a qualsiasi credente.  La parola d’ordine della pastorale e della catechesi è pertanto quella di ignorarla, ripiegando su altre soluzioni più “morbide” ed evasive.

 

Alla moglie o madre angosciata che telefonando a Radio Maria chiede rassicurazioni perché teme che l’amato congiunto possa essere finito all’inferno, la risposta di prammatica è che

1)  noi non sappiamo, di nessuno (nemmeno di Giuda) se si trova all’inferno;

2)  la misericordia divina è infinita, per cui si può sempre sperare che in articulo mortis … ;

3) comunque bisogna pregare per l’anima del defunto.

 

 La risposta più semplice e al tempo stesso più corretta sotto il profilo teologico sarebbe invece questa: “Signora, non si preoccupi.  Procuri di andare lei in paradiso, e quando sarà beata tenga per certo che se dovesse venire a sapere che suo figlio (o suo marito) è dannato non gliene importerà un bel niente; anzi, questo non potrà che riempirla di gioia, in quanto le permetterà di vedere la meravigliosa rispondenza di tale dannazione ai principi dell’infinita giustizia divina”.

 

Ma una risposta del genere, a dispetto della sua ineccepibilità teologica, nessuno ha il coraggio di darla.  Qualche conduttore tenta vie originali, un poco avventurose. Salvatore Lentini ad esempio (RM, 13.04.98) dice che “la madre beata non saprà che il figlio è dannato” (sic).

Incredibile. Infatti,

1) i beati vedono tutto in Dio;

2) al più tardi in occasione del Giudizio universale tutti sapranno tutto di tutti;

3) quella madre, se non sarà del tutto rimbambita dalla beatitudine (beatitudine = ebetudine?), tanto da arrivare magari a dimenticare addirittura di aver avuto un figlio, questo figlio lo cercherà in paradiso per gioire con lui; e non trovandolo, sempre se non sarà rimbambita, dedurrà immediatamente che, essendo stato tolto dal catalogo il limbo, il suo caro figliolo non potrà che trovarsi affidato alle amorose cure di Satana.  (Questo considerando la situazione in atto dopo il Giudizio, a purgatorio ormai chiuso; prima, la madre potrà comunque sapere se suo figlio si trova o meno in purgatorio, in quanto è “di fede” che i beati pregano per le anime purganti.)

 

Non aver tenuto conto dei punti 1 e 2 costituisce una clamorosa gaffe dal punto di vista teologico. Non aver considerato il punto 3 è prova di incredibile ingenuità.

Ovvero presuppone una visione dei beati, come già si è detto, simili a bambolotti plagiati e “drogati di beatitudine”.  La loro umanità, in teoria esaltata grazie alla riunione dell’anima col corpo, è di fatto umiliata, repressa, vanificata.

 

 

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