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Tuesday, 23 April 2024
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                             La presunta ‘prova’ della Risurrezione

 

 

 

 

In “Dicono che è risorto” Messori dà largo spazio all’ipotesi di uno studioso, il sacerdote Antonio Persili, il quale propone una lettura particolare del famoso episodio che ha per protagonista, accanto a Pietro, “l’altro discepolo” (di regola identificato con il “discepolo prediletto”, ossia, di fatto, col quarto evangelista).

 

Il Persili si chiede come mai di questo discepolo si dica che “vide e credette”, e cerca di scoprire che cosa possa aver veduto di tanto significativo da fargli comprendere che Gesù era risorto.

Convinto che le traduzioni correnti del testo evangelico, a cominciare da quella ufficiale della CEI, travisino il senso dell’originale, e formatosi una straordinaria competenza circa le tecniche di trattamento e inumazione dei cadaveri in uso nella Palestina del tempo, don Persili propone una nuova traduzione e una nuova interpretazione dei vv. 5-7 del cap. 20 del quarto vangelo. Ecco la traduzione:

 

“(Giovanni) chinatosi, scorge le fasce distese, ma non entrò. Giunge intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva ed entra nel sepolcro e contempla le fasce distese e il sudario, che era sul capo di lui, non disteso con le fasce, ma al contrario avvolto in una posizione unica”.

 

Le fasce dunque non sono semplicemente “a terra”, ossia appoggiate al suolo, bensì “distese”, afflosciate sul pavimento, o comunque sul piano d’appoggio della salma; e il sudario per il capo si trova in una posizione “unica”, ossia singolare, eccezionale, in quanto conserva, come se fosse “inamidato”, la forma che aveva quando era avvolto intorno al capo del defunto.

 

Sulla base di questa traduzione, lo studioso deduce che il corpo di Gesù, senza alcun intervento esterno, si sfilò dai lini funerari subitamente prosciugati da un lampo di calore o da qualche altro simile evento soprannaturale.

 Uguale deduzione avrebbe a suo giudizio fatto il discepolo prediletto, arrivando ad inferire dall’anomala posizione del sudario l’avvenuta Risurrezione.

Quella Risurrezione che pertanto risulterebbe ora “provata”, grazie al contributo di don Persili, anche per noi che leggiamo questi versetti.

 

Tale interpretazione ci pare da respingere per vari motivi. Raggruppiamo le ragioni della nostra confutazione in obiezioni di carattere metodologico, obiezioni di merito e obiezioni di natura linguistica.

 

 

Obiezioni di carattere metodologico

 

1) Impossibilità di escludere il furto e la messinscena

 

 Già di per sé il dire che la presenza dei lini funerari nella tomba da cui è scomparso il cadavere esclude il furto apre la via a un’obiezione fin troppo facile. Se così fosse, infatti, chi avesse voluto inscenare una finta risurrezione poteva facilmente immaginare che la via da seguire era proprio questa: lasciare i lini nella tomba a scopo di “depistaggio”.

 

Per sbendare il cadavere non occorreva certo molto tempo, bastava qualche minuto. Era senz’altro operazione più facile di quella, già compiuta, di rimuovere la pietra e penetrare nel sepolcro.

Del resto, per guadagnare tempo si poteva addirittura provvedere a lasciare nella tomba altri teli funerari portati a questo scopo. Anche ammesso che Giovanni avesse assistito alla sepoltura, come poteva essere certo che quei lini fossero proprio quelli di Gesù?

E anche chi sostenesse che un’operazione del genere era arrischiata e aveva nove probabilità su dieci di fallire, non potrebbe certo escludere che qualcuno l’abbia comunque tentata e abbia avuto fortuna. 

 

A maggior ragione, poi, se diciamo che una certa disposizione dei lini stessi avvalorava l’ipotesi della risurrezione, dobbiamo ammettere che si poteva pensare di “preparare” una “struttura” di tele come quella descritta in Gv 5-7 e lasciarla nel sepolcro al posto del cadavere asportato, giusto per perfezionare la messinscena.

Si badi che il tempo per tale preparazione (certo non difficile) vi sarebbe stato comodamente, nella notte tra il venerdì e il sabato.

 

E vale ancora la considerazione appena fatta: i due apostoli non erano materialmente in grado di verificare che quelle fossero le tele funerarie “originali”, ammesso che un controllo del genere fosse comunque possibile.

Va poi ricordato che su questo punto noi abbiamo solo la testimonianza di Giovanni (e, indirettamente, se si vuole, quella di Pietro). Sicché, anche ammesso che Nicodemo o Giuseppe d’Arimatea, organizzatori e supervisori della sepoltura, fossero in grado di accorgersi della sostituzione delle tele, noi non ne sappiamo assolutamente nulla.

Non si dica che queste sono sottigliezze degne di Sherlock Holmes: la sfrenata fantasia “giallistica” di certi apologeti giustifica pienamente simili controfantasie. Pensare di raggiungere una “prova” della Risurrezione usando strategie di tal genere è pertanto puramente illusorio.

 

 

2) L’autenticità dell’episodio è quanto mai controversa

 

Esiste comunque un’obiezione di principio assai più forte. La pretesa “prova” utilizza di fatto come documento principe e inconfutabile un passo che in realtà è solo una delle numerose testimonianze fornite dai Vangeli, testimonianze spesso non coincidenti e talora mutuamente incompatibili. Ciò è inoppugnabilmente scorretto sotto il profilo metodologico.

 

Ora, la visita di Pietro e Giovanni al sepolcro quale ce la descrive il quarto vangelo è assolutamente incompatibile, come sappiamo, con la ricostruzione che ci presentano Matteo (dove Gesù compare alle donne, tra cui la Maddalena, prima che queste abbiano avuto alcun contatto con gli apostoli) e Marco (dove le donne non dicono niente a nessuno, e non si fa menzione di un’andata al sepolcro da parte di alcun discepolo).

In pratica, poi, la visita dei due apostoli è incompatibile con il racconto di tutti i sinottici e persino dello stesso quarto evangelista, in quanto Pietro e Giovanni, pur spingendosi all’interno della tomba e fermandosi a meditare, non vedono alcun angelo, così come non ne vedono alcuno all’esterno; mentre la presenza di angeli (per di più “parlanti”) costituisce un elemento costante in tutti gli altri racconti di “visita al sepolcro” in tutt’e quattro i vangeli.

In particolare, infine, abbiamo già sottolineato che la realtà di uno spettacolo di lini funerari in posizione “rivelatrice” offertosi allo sguardo dei due apostoli appare incompatibile col fatto che la Maddalena, immediatamente dopo, non nota nella tomba assolutamente nulla di singolare.

 

Se poi passiamo a considerare i momenti di maggior “consonanza” con Gv 20, 3-8, ossia i due accenni a una visita “apostolica” alla tomba contenuti nel racconto di Luca (Lc 24, 12 e 24, 34), vediamo che il primo di questi versetti esclude la presenza di Giovanni, attribuendo la visita al solo Pietro; mentre il secondo, parlando di “alcuni dei nostri”, pur non escludendo tale presenza, certo non la conferma, in quanto lascia nel vago l’identità e persino il numero di coloro che si recarono al sepolcro.

In sostanza, il passo in questione, oltre a non godere della cosiddetta “molteplice attestazione” (la conferma, cioè di uno o più altri vangeli), risulta praticamente incompatibile anche col contesto in cui è inserito, nel suo stesso vangelo.

 

La conclusione ci pare chiara: è illegittimo pretendere di costruire qualsiasi ipotesi che vada oltre quanto si può immediatamente ricavare dal testo se prima non si ricostruisce in modo adeguato la sequenza logico-cronologica degli eventi.

È arbitrario scegliere un certo passo, ignorare tutti gli altri che, risultando con esso incompatibili, ne mettono in forse l’attendibilità, e su quella “pericope” costruire, grazie a forzature esegetiche (e in particolare filologiche), tesi che si pretende di accreditare come definitive (e tesi di che portata! nientemeno che la prova della Risurrezione!).

 

In altri termini: mentre si ripete continuamente che le differenze di dettaglio tra i vari racconti sono irrilevanti, in quanto tutti concordano sulla sostanza, ossia la scoperta della tomba vuota e un certo numero di apparizioni del Risorto; di fatto poi si prende uno di questi dettagli e, ignorando bellamente tutti quelli discordanti, vi si costruisce sopra una tesi quanto mai pretenziosa.

Sono quindi le basi stesse dell’operazione a risultare inaffidabili, in quanto l’attendibilità di ciascun passo, anzi, di ciascun versetto evangelico, comincia solo dove finisce l’attendibilità di quelli che con esso non possono conciliarsi.

 

Bisogna prendere atto che, ovunque si abbiano due o più versioni incompatibili di uno stesso gruppo di eventi, almeno una di esse non risponde a verità.

Si potrà discutere fin che si vuole sull’importanza delle divergenze, sulle loro motivazioni, sulle diverse “tradizioni” utilizzate dagli evangelisti; ma non sarà lecito utilizzare le differenti versioni scegliendo l’una o l’altra secondo l’opportunità senza aver prima dimostrato che si tratta di quella “vera”.

 

Qualora quindi non si riesca a comporre gli eventi presentati dai vari evangelisti in una sequenza plausibile, non resta che rinunciare onestamente a speculazioni del tipo di quella di Persili e proclamare i racconti pasquali, e quindi la Risurrezione stessa, materia di fede non suscettibile di verifica storico-filologica.

Come fanno appunto quegli ormai numerosi biblisti e teologi che suscitano l’indignazione dello stesso Persili e il rassegnato disprezzo di Messori.

 

 

3) Il quarto evangelista testimone estremamente sospetto

 

 La presenza, in un passo evangelico, di elementi incompatibili con altre pericopi è dunque di per sé motivo per invalidare ogni speculazione costruita su di esso, almeno finché non si siano chiariti in modo convincente i suoi rapporti con tali differenti versioni dei fatti.

Ma nel caso della visita di Pietro e Giovanni al sepolcro sussiste anche una ragione specifica che induce alla diffidenza: il fatto che la pericope appartenga al quarto vangelo e che coinvolga, presentandolo in una luce particolarmente favorevole, il più giovane degli apostoli, ritenuto autore del vangelo stesso.

Che poi in effetti il vero autore sia l’apostolo in persona o qualche suo discepolo (ovvero un gruppo di discepoli), poco importa; è fuori discussione che nel quarto vangelo il figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo - designato come “l’altro discepolo”, o “il discepolo che Gesù amava” (la grande maggioranza dei commentatori concorda circa l’identificazione) - viene costantemente posto in primo piano, e gli vengono attribuiti molti “primati” e comportamenti degni di elogio.

 

Possiamo ricordare telegraficamente:

 

la priorità, tra gli apostoli, nella chiamata da parte del Signore, o, meglio, l’iniziativa stessa della sequela (sempreché sia Giovanni, come pare più che probabile, il discepolo del Battista che accompagna Andrea);

la presenza a fianco del Cristo (sul cui petto posa il capo) durante l’Ultima Cena;

il riuscito tentativo di introdursi nel palazzo di Anna dopo l’arresto di Gesù, ottenendo l’ingresso anche per Pietro;

la presenza ai piedi della croce accanto a Maria, alla quale viene associato dal duplice affidamento;

la visita – compiuta insieme a Pietro - al sepolcro vuoto, dove per primo attinge la fede nell’avvenuta Risurrezione;

e infine il ruolo di carismatico protagonista presso il lago di Tiberiade in occasione dell’apparizione notturna di Gesù, che egli non a caso è il primo a riconoscere.

Per coloro poi che, come I. de la Pottery, insistono sul fatto che il “Beati quelli che pur non avendo visto hanno creduto” va inteso letteralmente così (riferito cioè al passato anziché come presente gnomico), il quarto evangelista oserebbe attribuire a Gesù un pubblico elogio di quello che egli vuole accreditare come un suo primato: il fatto di aver creduto alla Risurrezione già di fronte al sepolcro vuoto, ossia prima di aver visto il Risorto.

 

Ora, tutti questi episodi hanno in comune il fatto di essere totalmente ignorati dai sinottici, i quali spesso ci danno per di più una versione dei fatti che smentisce quella di Giovanni.

Secondo loro, infatti, i primi apostoli chiamati alla missione sono Pietro e Andrea; al momento dell’arresto, come abbiamo visto, tutti gli apostoli e i discepoli fuggono, salvo Pietro, il quale, solo, osa spingersi nel cortile del palazzo di Anna, ma dopo il triplice rinnegamento anch’egli si dilegua, sicché nessun apostolo (neppure Giovanni, dunque) viene citato tra gli “amici” presenti sul Calvario.

La visita al sepolcro vuoto poi urta contro la versione di Marco e Matteo, e neppure Luca accenna alla partecipazione di Giovanni, che viene addirittura esclusa da Lc 24, 12; e quanto all’apparizione del Risorto sulla sponda del lago, essa, che costituisce evidentemente una posteriore aggiunta al corpo del quarto vangelo, è difficilissima da inserire nella serie delle apparizioni postpasquali, sì da suscitare mille perplessità.

 

Ma vi è qualcos’altro di non meno interessante da sottolineare. Non solo sono assenti nei sinottici tutti gli episodi del quarto vangelo in cui Giovanni fa una “bella figura”, ma in essi ne figurano addiritura almeno un paio in cui, al contrario, Giovanni e il fratello Giacomo fanno una pessima figura, tengono cioè un comportamento che merita loro un rimprovero di Gesù e in un caso suscita persino lo sdegno di tutti gli altri apostoli.

Si tratta della proposta dei due fratelli di invocare un fuoco distruttore su un villaggio samaritano e della loro richiesta di sedere l’uno alla destra e l’altro alla sinistra del Signore nella sua gloria (Lc 9, 54-55; Mc 10, 35-45. Si potrebbe aggiungere, pur se meno significativo, l’episodio riferito in Mc 9, 38-40, in cui Giovanni si fa portavoce di un atteggiamento degli apostoli che, anziché riscuotere l’approvazione di Gesù, come presumibilmente il discepolo sperava, induce il Maestro a un pacato monito: “Chi non è contro di noi è per noi”).

Orbene, come è fin troppo facile immaginare, questi episodi nel quarto vangelo non ci sono. Ed è superfluo ricordare che in esso non figura neppure la notizia dell’avvenuta fuga di tutti quanti gli apostoli, notizia fornitaci concordemente dai sinottici.

 

Del resto, il fatto che Giovanni sia designato come “il discepolo che Gesù amava” non lascia dubbi circa il ruolo privilegiato che il quarto vangelo gli attribuisce.

Sono patetici i tentativi di dimostrare che l’espressione non vuole indicare predilezione - il che, si ammette, sarebbe cosa disdicevole, condannata da Gesù stesso -, bensì la condizione di colui che è diventato discepolo perché ha osservato la parola di Dio. Egli starebbe cioè a indicare come deve essere un vero discepolo per essere amato da Cristo.

Il quarto vangelo, dice ad esempio A. M. Tentori, tende a delineare dei tipi, ossia figure che hanno un valore simbolico: come la Samaritana è l’emblema di chi cercando la felicità terrena non riesce a placare la sua sete, così Giovanni è la personificazione simbolica della fedeltà e dell’amore, ricambiati da Gesù.

 

Si tratta di una tesi manifestamente insostenibile per vari motivi:

 

1) questo presunto discepolo simbolico, che si vorrebbe rappresentativo di tutti i discepoli, di fatto interagisce con gli altri, tra i quali viene distinto proprio in virtù di questa caratterizzazione, che essi non possiedono: mentre la si afferma di lui, la si nega degli altri, ai quali implicitamente lo si contrappone;

2) al di fuori del quarto vangelo, tale caratterizzazione non viene usata in alcun altro testo canonico;

3) per una strana coincidenza, il quarto vangelo ha per autore proprio il discepolo prediletto (o, in ogni caso, alcuni suoi seguaci).

 

Resta ancora da fare un’osservazione importante. In quasi tutti i passi del vangelo di Giovanni in cui l’apostolo che si presume ne sia l’autore appare in una luce particolarmente favorevole, si nota una più o meno scoperta contrapposizione con Pietro. Questi viene sempre presentato come l’apostolo più autorevole, ma Giovanni risulta essere il più “bravo”, il più chiaroveggente, il più vicino al cuore di Gesù, che lo ama appunto sopra ogni altro.

Basterà scorrere l’elenco, sopra riportato, dei passi in questione per vedere come Pietro sia addirittura costretto in alcuni casi (nel cenacolo e all’ingresso del palazzo di Anna) a valersi dei servigi del giovane condiscepolo, nei cui confronti viene quasi a instaurarsi una sorta di dipendenza.

 

Benoit è esplicito su questo punto: parla dell’ “emulazione” tra i due apostoli come di un tema frequente nel quarto vangelo, definisce Giovanni “fraternamente rivale” di Pietro e scorge in questi passi “sempre la stessa preoccupazione: mettere a fianco di Pietro il capo del gruppo giovanneo” (“Passione e resurrezione del Signore”, pp. 360-62).

La contrapposizione tra i due raggiunge l’apice nell’episodio dell’apparizione sul lago, dove il giovane apostolo è il primo a riconoscere Gesù; anche nella scena conclusiva, pur se Pietro viene ufficialmente investito della missione pastorale, egli conserva, grazie al mistero che avvolge il suo destino, una sorta di enigmatica superiorità.

In questa contrapposizione molti vedono adombrato l’eterno contrasto tra potere sacerdotale e potere profetico-carismatico.

 

 

Discorso a parte meriterebbe naturalmente – ma non è questa la sede per farlo - il particolare della presenza di Giovanni sul Calvario, mentre il capo della Chiesa è latitante, al pari di tutti gli altri apostoli. Tale presenza risulta smentita non solo dai racconti dei sinottici (che di fatto smentiscono pure quella di Maria), ma, indirettamente, anche dai preannunzi di Gesù circa la defezione di tutti i discepoli (Mt 26, 31; Mc 14, 27).

La presenza di Giovanni ai piedi della croce è d’altra parte condizione imprescindibile per affermare quella della Madre accanto al Figlio crocifisso, ossia uno dei pilastri della mariologia; tutto quel che la catechesi può fare è glissare il più possibile sulla presenza - in certo senso imbarazzante - del discepolo per enfatizzare al massimo quella della Vergine, proclamata corredentrice, offerente il figlio in olocausto e autoimmolantesi insieme a lui (v., ne I racconti della Passione, L’asserita presenza di Maria sul Calvario, da cui per comodità del lettore abbiamo riportato il passo precedente).

 

 

Se ora torniamo a considerare l’episodio della visita di Pietro e Giovanni al sepolcro, vediamo che esso presenta nel modo più scoperto il tema dell’autoesaltazione del “discepolo prediletto” posto a confronto col principe degli apostoli.

Il giovane si comporta in modo impeccabile, mostra deferenza verso il collega più attempato lasciandogli la precedenza nell’ispezione della tomba; ma si rivela assai più perspicace di lui nell’interpretare la scena apparsa agli occhi dei visitatori. E più perspicace in una materia che dovrebbe essere proprio il punto forte di chi è stato proclamato la roccia su cui è destinata a poggiare la Chiesa.

L’autoesaltazione dell’autore è quindi evidente: Giovanni si attribuisce la priorità asssoluta nell’approdo alla fede.

 

Il tentativo è tanto ben riuscito che ancora oggi vi è chi, come Messori, definisce Giovanni il primo credente, dimenticando che tale primato spetta alla Madre di Gesù; la quale del resto, secondo il parere pressoché unanime dei benpensanti, era già stata gratificata della prima apparizione pasquale del Figlio (v. L'asserita apparizione a Maria).

 

Concludendo su questo punto, torniamo a dire che il “vide e credette” è, per mille ragioni che pensiamo di aver sufficientemente illustrato, un’affermazione quanto mai inaffidabile, per non dire sospetta, tendenziosa.

Proprio l’opposto, cioè, di quanto occorrerebbe per assumerla come fondamento di una tesi tanto impegnativa quale è la prova dell’avvenuta Risurrezione.

 

 

Obiezioni  di  merito

 

 Dopo questa contestazione pregiudiziale (ma fondamentale), entriamo nel merito della tesi di don Persili.

Come si è detto, questi afferma che il Cristo, risorgendo, si sprigionò dalle tele funerarie senza lederle in alcun modo; anzi, lasciando addirittura il “sudario per il capo” rigido, quasi inamidato per i profumi che l’impregnavano, e quindi nella stessa posizione in cui si trovava quando era avvolto attorno alla testa del cadavere.

 

Naturalmente, se partiamo dal principio che a Dio nulla è impossibile, tale congettura va considerata pienamente legittima in quanto sostanzialmente “inattaccabile”.

Ma vi è una circostanza che suscita grande perplessità: non si capisce perché le fasce che avvolgevano il corpo di Gesù non abbiano anch’esse conservato la forma del corpo stesso; perché insomma, pur trovandosi nelle stesse condizioni del sudario (anch’esse erano state abbondantemente imbevute di aromi), non ne abbiano subito la sorte al momento della Risurrezione.

 

Di più: il versetto 7, che conterrebbe la sconvolgente rivelazione, in effetti, data la sua struttura linguistica, oggettivamente intende comunicare in primo luogo la diversa collocazione e/o posizione di fasce e sudario.

Sicché si deve dedurre che la “chiave” per accedere al mistero è costituita da questa differenza, ossia dal fatto che, mentre le fasce sono distese, afflosciate, il sudario, benché vuoto, conserva (nell’interpretazione di Persili) la posizione e la rigidità che aveva quando avvolgeva il capo di Gesù; e che fasce e sudario sono separati.

Come scrive lo stesso Messori: “La tomba presentava un aspetto insieme ordinato e disordinato” (p. 122). Proprio in questo contrasto, ripetiamo, si dovrebbe vedere l’elemento “rivelatore”.

 

Ora, mi pare che nell’esposizione della tesi di Persili non figuri nulla di tutto ciò. Serve a poco dire che le fasce si sono afflosciate, a differenza del sudario, perché più pesanti. Se si trattasse solo di questo, se cioè la posizione delle fasce non fosse rivelatrice, e lo fosse soltanto quella del sudario, l’evangelista avrebbe dovuto limitarsi a menzionare quest’ultima, senza “intorbidare”, e quindi indebolire, la testimonianza con un particolare irrilevante.

Il suo intento ci pare invece quello, ripetiamo, di indicare come rivelatrice proprio la differenza di condizione tra fasce e sudario.

 

Questo rende ulteriormente precaria la base su cui don Persili sviluppa le argomentazioni di carattere lessicale che lo portano alla conclusione che conosciamo, ossia la posizione anomala, sorprendente del sudario stesso.

 

 

Obiezioni  di  natura  linguistica

 

La tesi di Antonio Persili poggia, come si è detto, su una nuova traduzione dei vv. 5-7 del passo di Gv 20, e in particolare del v. 7. Orbene, tale traduzione è a nostro giudizio insostenibile.

Poiché però la confutazione delle nuove “soluzioni” proposte dall’autore ha per forza di cose un carattere piuttosto tecnico, l’abbiamo sviluppata in un apposito studio che figura nella sezione Studi linguistici (v. Gv 20, 7: 'in una posizione unica'?). 

 

         

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