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controapologetica
 
Friday, 19 April 2024
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                                       L’episodio del Cireneo

 

 

 

 

Mentre Gesù sta portando verso il Calvario la croce a cui dovrà essere appeso, i soldati romani, esecutori materiali della sua condanna, costringono un certo Simone di Cirene a caricarsi la croce sulle spalle reggendola fino al luogo dell’esecuzione.

O meglio: questo è quanto ci raccontano i tre vangeli sinottici, ossia quelli di Matteo, di Marco e di Luca; il quarto vangelo, quello di Giovanni, ci dice invece che Gesù se ne andò verso il Golgota “portando da se stesso la croce”.

 

Fin qui niente di strano. Siamo nella più classica tradizione evangelica: qualcuno dice una cosa e qualcun altro dice l’opposto. Ma Messori, che avrebbe potuto rinunciare all’analisi dell’episodio, abitualmente considerato piuttosto marginale, vi dedica uno dei suoi “colpi di sonda” (v. “Patì sotto Ponzio Pilato?”, pp. 181 ss.) perché ritiene di poter fare precisazioni di carattere storico atte a smentire le insinuazioni di buona parte della critica, che pensa si tratti di un’invenzione degli evangelisti.

 

      Veniamo così a sapere che non vi sono ragionevoli motivi per escludere che il Rufo nominato da Paolo al termine della Lettera ai Romani sia da identificare con il Rufo che qui risulta essere, insieme al fratello Alessandro, figlio del “Cireneo”; che Alessandro e Rufo erano nomi in uso presso gli ebrei al tempo di Gesù (e Rufo sarebbe addirittura forma ellenistica di Ruben); che nella regione di Cirene “più di un quarto della popolazione era di origine israelitica”, e che alcuni di questi giudei si convertirono presto al cristianesimo, come testimoniano gli stessi “Atti degli apostoli”.

      Messori osserva poi che anche il fatto che il Cireneo stia tornando dalla campagna sul mezzogiorno concorda perfettamente con l’obbligo di sospendere il lavoro a quell’ora il venerdì, tanto più che qui siamo “nel venerdì che precede la festa più solenne, quella di Pasqua” (col che, senza dichiararlo, egli prende implicitamente posizione sul problema della data della crocifissione, seguendo la cronologia di Giovanni contro i sinottici).

      E, si sostiene, è anche possibile dimostrare, documenti alla mano, che i romani non si facevano scrupolo di “esigere dai viandanti servizi umilianti nei giorni delle grandi feste ebraiche”; sicché la “requisizione” del Cireneo e la corvée impostagli risultano storicamente plausibili.

 

Le cose non sono forse così chiare come le presenta Messori (ad esempio, l’ultima asserzione circa il comportamento dei romani, condivisa da Blinzler, urta contro un’informazione di Giuseppe Flavio); ma nel complesso possiamo complimentarci con l’autore.

Se non che, come al solito, è chiaro che non sono questi i problemi su cui il comune lettore della Bibbia vorrebbe avere lumi. Le difficoltà che qui vengono rimosse il “comune utente biblico” (in sigla: CUB) non le nota neppure, in quanto digiuno, di regola, delle nozioni storiche che vi sono implicate.

Qualche interesse potrebbe semmai nutrire per un’altra serie di problemi, che Messori passa a considerare subito dopo: l’analisi dei motivi, di natura cristologica, che potrebbero aver indotto i sinottici a riferire (o, secondo gli scettici, a inventare) l’episodio del Cireneo che risparmia a Gesù il defatigante trasporto della croce.

 

      Vi è in primo luogo la questione della presunta abnorme “debolezza” del Nazareno, incapace di fare quello che ordinariamente facevano tutti i condannati alla crocifissione, ossia di portare il proprio patibolo sul luogo dell’esecuzione. Non sarebbe, questa debolezza, una nota infamante per il Messia, così da indurre a credere che sia stata riferita solo perché si trattava di una circostanza reale che non si poteva tacere? E, del resto, non è in armonia col fatto che il Cristo spirò prima di quanto si potesse prevedere?

      In secondo luogo: ha senso supporre che con l’espediente del Cireneo si sia voluta risparmiare a Gesù l’ignominia del portare la croce? Non è forse facile ribattere che nei racconti della Passione gli vengono attribuite umiliazioni ben più infamanti?

      E come conciliare questa accusa agli evangelisti con quella, opposta, di inventare supplizi per fare della sofferenza del Cristo qualcosa di unico e insuperabile, per mostrare cioè che egli soffrì tutto quanto si poteva umanamente soffrire?

 

Come si vede, siamo di fronte a un groviglio di problemi e di contraddizioni tali che per l’apologeta è facile sbarazzarsene confutando le accuse di certi critici mediante quelle di altri di opinione opposta, con la pretesa di aver dimostrato in tal modo la veridicità dei racconti evangelici.

Ma tale veridicità non può che essere un mito, quando si abbiano due versioni dei fatti tra loro incompatibili. È illusorio “pensare che, anche qui, gli evangelisti non abbiano inventato e neppure ritoccato, ma che si siano limitati a riferire – piacesse loro o no – quel che era davvero successo”. È infatti impossibile, per la contraddizion che nol consente, riferire fedelmente su quel che è successo mediante due resoconti contenenti asserzioni opposte, poiché le cose non possono essere accadute contemporaneamente in due modi diversi.

Impossibile quindi dar torto a quella critica il cui assunto Messori sintetizza ironicamente così: “Che cosa avvenne non lo sappiamo. La sola cosa certa è che non avvenne quel che i vangeli raccontano. Qualunque cosa raccontino”.

 

Ecco, qui siamo giunti al nocciolo del nostro problema: se Giovanni dice che Gesù portò da sé la croce e i sinottici dicono che gliela portò il Cireneo, sicuramente o l’uno o gli altri mentono. E il CUB, il comune utente biblico, piuttosto che venire informato sugli altri problemi di ordine squisitamente storico di cui si occupa Messori, vorrebbe proprio che si rispondesse a queste domande, che a lui vengono spontanee: 

1) che cosa è effettivamente accaduto? Ossia: dobbiamo cestinare la versione dei sinottici o quella di Giovanni?

2) come si può conciliare questa clamorosa discordanza con l’inerranza biblica, ossia con la “sincerità e verità” con cui gli evangelisti, a detta dei padri conciliari, ci hanno riferito circa Gesù?  

 

Sono queste le domande a cui dovrebbe rispondere Messori. Il quale però, quando, alla fine del capitolo, affronta finalmente la questione della testimonianza del quarto vangelo che smentisce i sinottici, ignora bellamente questi due problemi, e si mostra tutto preso unicamente dalla questione del motivo per cui Giovanni ha scritto quel che ha scritto. Sull’individuazione di tale motivo egli imposta il discorso, invocando l’attenuante della difficoltà di leggere ogni volta nella mente degli agiografi le loro riposte intenzioni.

E una volta individuato un motivo convincente, su cui, dice, si può praticamente scommettere, ritiene di aver risolto ogni problema. Con contorno di lazzi per il malcapitato Loisy, reo di aver arrischiato una congettura circa le ragioni di quella che a lui sembrava un’invenzione dei sinottici.

 

      In concreto, il motivo per cui Giovanni ha provveduto a precisare puntigliosamente che Gesù si portò da solo la croce fino al Golgota, sarebbe stato il desiderio di smentire le dicerie dei “doceti”, secondo i quali Gesù, in quanto vero Dio ma non vero uomo, non poteva avere un vero corpo; pertanto non poteva aver sofferto sulla croce, dove era stato sostituito dal Cireneo che ne aveva assunto le sembianze.

 

      Qui sorgono alcuni problemi tecnici. Giovanni, in quanto apostolo, presente a suo dire sul Calvario accanto a Maria, dovrebbe aver visto coi propri occhi la scena del Cireneo che si carica della croce togliendola dalle spalle di Gesù. E dovrebbe aver visto anche che un’intera folla aveva assistito alla scena (tutto questo, s’intende, nell’ipotesi che la versione dei sinottici corrisponda alla realtà).

      In altri termini, egli doveva sapere che l’unico modo di smentire efficacemente l’insinuazione dei doceti era partire dall’ammisssione dell’intervento del Cireneo – che era impossibile negare in quanto avvenuto pubblicamente -, limitando però il suo contributo al trasporto del patibolo sino al luogo della crocifissione.  

Egli avrebbe quindi dovuto ribadire la versione dei sinottici, salvo specificare e sottolineare che Cristo, giunto al Calvario, si riprese la croce e vi fu inchiodato. Non sarebbe stata, questa, una forma di rispetto della verità, se le cose erano andate così? Per gli evangelisti era  proprio inconcepibile riferire semplicemente quel che era successo, senza modificarlo di testa propria per loro intenti speciali?

 

Ripetiamo: se tutti avevano visto che il Cireneo aveva portato la croce, negarlo era cosa controproducente e sciocca, inducendo proprio a pensare che poi, come era vero che l’aveva portata, ci fosse anche salito. Perché negare anche ciò che era vero (ossia che il Cireneo aveva portato la croce), anziché negare solo ciò che vero non era (ossia che vi era morto)? Si comporta così la gente normale, ossia quei “semplici” per i quali è concepita la Rivelazione?

Per di più, la precisazione di Giovanni (precisazione che nessuno lo costringeva a fare) smentisce anche il principio secondo cui gli evangelisti non potevano mentire perché sarebbero stati sconfessati dai testimoni dei fatti, in quanto la salita di Cristo al Calvario, come si è detto, era stata seguita da una moltitudine di persone, a quanto risulta dai resoconti degli evangelisti (e di Luca in particolare).

 

Noi ad ogni buon conto ci chiediamo: come mai Giovanni, nel caso che conosca i sinottici, non si preoccupa dell’effetto che faranno sui lettori i due dati contrastanti? Pensa semplicemente che berranno tutto, e non si porranno problemi? A tal punto manca di rispetto nei loro confronti?

Se invece supponiamo che egli ignorasse quelli che ora sono i primi tre vangeli, risulta ancora una volta smentita la teoria apologetica che vuole i singoli evangelisti (e in particolare proprio Giovanni, in quanto ultimo a scrivere) impegnati a completare e precisare quanto avevano già scritto gli altri.

 

Passando poi dai destinatari diretti dell’evangelista a quelli più lontani (tra i quali siamo anche noi, evangelizzandi del terzo millennio), non possiamo non chiederci quale sia in tutto ciò il ruolo dello Spirito Santo, autore principale della Bibbia. Si è fatto condizionare da problemi tanto meschini e contingenti? E così, miliardi di persone per migliaia di anni avranno di fronte una contraddizione clamorosa, dovendo dipendere dagli scoop e dalle soffiate dei vari Messori per avere uno straccio di spiegazione? E poi si ha il coraggio di dire “Queste cose sono state scritte perché crediate”?

 

      Quanto poi all’asserita difesa contro il docetismo, è chiaro che essa è fatta a prezzo di una menzogna; e, nel caso che il quarto evangelista conosca i sinottici, con una consapevole formale smentita della loro versione dei fatti. È scorretto perciò dire, come fa Messori, che Giovanni (“usufruendo del suo diritto di scegliere quanto riferire al lettore”) tace, ovvero “salta”, l’episodio del Cireneo. Ma che barbarico modo di usare la lingua è mai questo? [1]

      Da notare poi che “salta” e “tace”, oltre che falsi, nell’ottica della spiegazione offerta da Messori sono anche assurdi, in quanto, se lo scopo era di soffocare sul nascere le insinuazioni dei doceti, non serviva a nulla tacere e saltare, ossia glissare, ignorare il problema: occorreva negare, cioè smentire formalmente. Il che, torniamo a dire, è proprio ciò che Giovanni fa.

 

      In ogni caso, è inutile per l’apologetica indugiare a confutare uno per uno gli argomenti dei negatori della storicità dell’episodio riferito dai sinottici quando tali negatori possono smentire i sinottici stessi nientemeno che con la parola di Dio, ossia col quarto vangelo.

      È ridicolo stare a far ricerche per appurare l’identità del Cireneo (questione molto secondaria: se un tale personaggio ci fu, nessuna difficoltà ad ammettere che i suoi connotati possano essere proprio quelli delineati da Messori), quando un altro vangelo ti spazza via il Cireneo stesso!

 

Significativa poi la conclusione che Messori appone al capitolo: siccome non vuol rinunciare alla storicità del Cireneo e a tutti gli scoop che ha brillantemente realizzato per dimostrarla, dice che Giovanni può permettersi di negare la sua esistenza perché, tanto, il Cireneo il posto nel kérygma se lo era ormai assicurato. Il che ovviamente è falso: il posto è assicurato solo previa eliminazione della testimonianza di Giovanni, che nega al personaggio qualsiasi ruolo; e sarebbe assurdo pensare che il quarto evangelista partisse dal presupposto che, tanto, la sua versione dei fatti, anche se inveritiera, era innocua perché sarebbe stata tenuta in non cale.

Qui dunque il gioco dell’et-et, ossia della botte piena e della moglie ubriaca, non funziona per nulla. Ma Messori ci prova fino all’ultimo, e con la sua conclusione ambigua spera forse di riuscire almeno a far sì che non tutti si accorgano che le due versioni fornite dagli evangelisti sono assolutamente incompatibili.

 

Concludendo, vorremmo sottolineare la valenza paradigmatica di questo episodio (in sé di scarso rilievo) al fine di illustrare i metodi dell’apologetica, e in particolare dell’apologetica messoriana. Il CUB non trova nulla da eccepire sull’entrata in scena del Cireneo, sicché non può apprezzare adeguatamente tutti i dati che l’autore accumula per smentire le riserve, le perplessità, le insinuazioni avanzate da vari critici circa la storicità della vicenda; mentre nota immediatamente e con sconcerto la versione diametralmente opposta di Giovanni.

Siamo dunque alle solite: Messori fa brillanti scoperte, che però solo raramente risolvono quelle che sono le vere difficoltà che incontra il comune lettore della Bibbia.

 

Vi è una sorta di strabismo: l’attenzione di Messori, costretto per forza di cose ad evitare le vere difficoltà, per le quali non ha alcuna soluzione da fornire, si concentra su problemi storici riguardanti in pratica la cornice dei racconti, dove riesce in effetti a portare non pochi argomenti persuasivi.

Una volta fatto questo, egli ritiene di aver provato la sostanziale storicità dei vangeli, e spera che ciò induca il lettore ad accettare ad occhi chiusi tutte le affermazioni inverosimili o incompatibili che gli evangelisti gli propinano.

 

P. S.  Abbiamo qui uno degli innumerevoli casi in cui un evangelista dà una versione dei fatti incompatibile con quella degli altri. Messori, come si è visto, si limita alla ricerca dei motivi per cui ciò avviene, dando implicitamente per scontato che tale versione non sia veritiera.

Ci sentiamo allora pienamente legittimati a compiere la medesima operazione nel caso della vexata quaestio della presenza di Maria sul Calvario, dove pure la testimonianza del quarto vangelo contrasta con quella dei sinottici. Se ne parla nel prossimo capitolo, “L’asserita presenza di Maria sul Calvario”.



[1] È lo stesso linguaggio fraudolento che l’apologetica impiega quando, parlando dell’approdo della Sacra Famiglia a Nazaret nel vangelo di Matteo (2, 23), si dice che l’evangelista “tace” circa l’origine nazaretana di Maria e Giuseppe; mentre è a tutti evidente che il modo in cui si esprime rivela che egli ignora - o comunque finge di ignorare, per motivi che non è possibile precisare in questa sede – tale origine nazaretana.

 

 

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